Nel novembre 2012, in Cambogia, precisamente in Phnom Penh, é stato firmato formalmente il Partenariato Economico Globale Regionale - RCEP che vede coinvolte le dieci economie del gruppo ASEAN – Indonesia, Sultanato del Brunei, Laos, Cambogia, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam – con l’aggiunta di Cina, India, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Sud Corea. Tale partenariato regionale accoglie un impegno più ampio e profondo che quello sottoscritto dall’accordo di libero scambio del gruppo ASEAN, mirando a un livello elevato di liberalizzazione delle tariffe doganali per beni e servizi. Il blocco economico che sottende l’accordo conta circa il 45% della popolazione mondiale e un PIL aggregato di 21.3 migliaia di miliardi di dollari. Peraltro l’importanza del RCEP non é puramente commerciale, esso s’inserisce in un contesto fortemente dinamico di mega-accordi regionali, dove gli attori coinvolti sono le attuali potenze economiche mondiali.

 

Il termine “imperialismo competitivo” indica l’asservimento del libero commercio regionale all’influenza politica di uno Stato ed é stato utilizzato, negli ultimi anni, per descrivere la corsa degli Stati Uniti a concludere accordi regionali con fini strategici.

 

Primo fra tutti, il contenimento dell’ascesa dei paesi BRIC e dei suoi giganti, Cina e India.

 

Il RCEP rappresenta la risposta asiatica allo stato di avanzamento dei negoziati commerciali dell’accordo trans-pacifico (TPP) e di quello trans-atlantico (TTIP), mitiga al contempo l’influenza statunitense nell’area pacifica e mira a creare un percorso di integrazione comune dei paesi asiatici.      

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Il ruolo che l’India gioca all’interno dei negoziati del RCEP é rilevante sia ai fini del successo dell’accordo sia per lo sviluppo economico stesso del paese, il quale non é coinvolto in nessuno degli altri mega accordi regionali e non può, dunque, rischiare di rimanere in un angolo mentre i grandi player mondiali giocano le loro carte nell’ambito del libero commercio.

 

Nonostante le logiche geopolitiche, il governo di Narendra Modi, il 25 settembre del 2014, ha lanciato il programma nazionale di riforme “Make in India” - vedi anche il nostro recente approfondimento - che intende trasformare il Paese in uno degli hub principali dell’industria manifatturiera globale, capace di attrarre investimenti diretti esteri (IDE) da ogni parte del mondo. Tale stagione di riforme economiche mal si concilia con alti livelli di liberalizzazione dei dazi doganali e l’abbattimento delle barriere tariffarie, per tale motivo l’India al tavolo dei negoziati, avente luogo a Noida alle porte di New Delhi, nel dicembre 2014, ha mantenuto la sua posizione difensiva in tema di barriere tariffarie giocando al ribasso. Se da un lato le coraggiose Australia e Sud Corea proponevano un livello di liberalizzazione delle tariffe tra l’ottanta e il novanta percento, l’India pressava per una liberalizzazione delle merci pari al 40%, blindando peraltro il mercato dei servizi sanitari e quello farmaceutico, fonti di enormi business per il Paese.

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Il puzzle asiatico é ancora più complicato di quanto sembra a causa della costante interferenza degli Stati Uniti. In una visita ufficiale a Mumbai, il Vice Presidente americano Joe Biden, ha rimarcato l’invito a partecipare al partenariato trans-pacifico (TTP) e il corteggiamento al gigante asiatico ha continuato ad aver luogo nelle ultime settimane niente meno che con la visita del Presidente Barack Obama.

Nonostante il tentativo statunitense da un lato e asiatico dall’altro, di vincolare la crescita competitiva indiana ad accordi commerciali e tariffe doganali, il subcontinente asiatico mantiene una politica ibrida, basata su un basso grado di apertura commerciale e che tenta di rendere il Paese leader nell’attrazione di capitale estero. La metafora dell’elefante in equilibrio su un filo rende precisamente l’idea del delicato momento per il paese asiatico, coinvolto nelle logiche dell’imperialismo commerciale.  La posta in gioco é elevatissima; in primo luogo, la strategica alleanza con la Cina, che crede fortemente nella riuscita dell’accordo RCEP. In secondo luogo, la rinnovata intesa politica con gli Stati Uniti e infine, la gestione della politica di sviluppo economico interno del Primo Ministro Modi.
                                                                                                                      

 

 

Fonte: Vivekanda International Foundation, The BRIC Post, Observe Research Foundation, Institute of Peace and Conflict Studies - IPCSa cura di Exportiamo, di Jessica Orsini, redazione@exportiamo.it 

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