Con l’imposizione di nuovi dazi e barriere, il commercio è ritornato al centro dell’agenda internazionale. Siamo alle soglie di una guerra commerciale di portata globale? Cosa rischiano e cosa possono fare concretamente l’Unione Europea e l’Italia?

A colpi di “Make America Great Again” si sono abbattute sul commercio internazionale una serie di pesanti barriere tariffarie introdotte dagli Stati Uniti da inizio 2018. I dazi sono già stati applicati all’import di lavatrici e pannelli fotovoltaici (8 miliardi di dollari) e di acciaio e alluminio (45 miliardi, di cui 30 temporaneamente esentati). E ne sono stati annunciati altri su 1.300 prodotti cinesi, anche ad alta tecnologia, per 50 miliardi di acquisti USA (per approndire clicca qui).

L’obiettivo dell’amministrazione Trump è ben definito: cambiare le regole del gioco degli scambi globali depotenziando la governance multilaterale del commercio mondiale e indebolendo il ruolo di arbitro internazionale del WTO (World Trade Organization), per far valere il peso degli Stati Uniti in contrattazioni bilaterali con i singoli partner commerciali facendo leva sulla concreta possibilità di imporre, in modo unilaterale, dazi e altre barriere commerciali.

E sembra che questa tattica, più o meno scorretta, stia funzionando se consideriamo, ad esempio, che la conferma dell’esenzione dai dazi su acciaio e alluminio di Canada e Messico è stata condizionata dal buon andamento, dal punto di vista statunitense, della revisione dell’accordo commerciale NAFTA, così come quella della Corea del Sud è arrivata solo dopo la rinegoziazione dell’accordo di libero scambio Korus in cui gli Stati Uniti hanno ottenuto rilevanti concessioni nel settore auto e farmaceutico.

Inoltre, l’amministrazione USA sta boicottando apertamente il corretto funzionamento del WTO attraverso il blocco del rinnovo dei giudici dell’Appellate Body, l’organo di appello del meccanismo di risoluzione delle dispute: dei sette giudici previsti, attualmente ne sono in carica quattro e a dicembre 2019 ne rimarrà uno solo, interrompendo ogni attività dell’organo.

Il nodo critico, comunque, è connesso all’emergere del gigante cinese e al suo tentativo di conquistare la leadership mondiale a scapito degli Stati Uniti. Quando la Cina ha fatto il suo ingresso nel WTO nel 2001 si pensava infatti che nel giro di qualche anno si sarebbe trasformata in un’ economia di mercato, ma così non è stato considerato che, ad oggi, nell’economia cinese l’intervento dello Stato rimane capillare e i sussidi distorcono i prezzi all’export di numerosi prodotti (il cosiddetto dumping). Nell’ottica USA, inoltre, le pratiche scorrette della Cina sono ben più ampie e riguardano il trattamento della proprietà intellettuale, specie in settori high-tech, con vari strumenti, come richieste di joint venture o restrizioni agli investimenti diretti esteri, utilizzati allo scopo di trasferire tecnologie USA in mano cinese.

Quali sono i rischi di un’escalation del protezionismo per l’Europa e l’Italia?

Se ad una prima analisi le barriere commerciali USA appaiono come un gioco a somma zero, - quanto perdono i paesi esportatori, tanto vincono gli Stati Uniti- studi empirici ed esperienze passate mostrano in realtà un effetto negativo sull’attività produttiva di chi impone i dazi, attraverso un aumento dei costi di produzione che determina un aumento dei prezzi, che si trasferisce, a sua volta, sull’inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie e rallentando i consumi.

Ma le barriere tariffarie danneggiano, evidentemente, soprattutto i partner commerciali. Oltre all’effetto immediato determinato da una riduzione dei flussi di esportazione dei paesi fornitori degli Usa, si creerebbero infatti anche rilevanti effetti indiretti, che coinvolgono tutti i paesi, compresi quelli esentati dai dazi.
Il primo consiste nella distorsione dei flussi commerciali per i quali il mercato americano diventa off-limits, che si dirigeranno verso le destinazioni rimaste accessibili. Un caso concreto riguarda le aziende italiane che vendono tondi per cemento armato, che possono temere la maggiore competizione nei loro principali mercati di sbocco, come l’Algeria, di prodotti provenienti, per esempio, dalla Turchia. Più in generale, tenderanno ad aumentare i flussi in entrata nell’Unione europea, che nel complesso è il primo importatore mondiale di acciaio e alluminio.
Il secondo effetto agisce attraverso le catene globali del valore: un’azienda che vede ridursi le proprie vendite di acciaio o alluminio negli Stati Uniti taglia anche gli acquisti di beni interni dai propri fornitori. Per esempio, la minore attività delle aziende siderurgiche tedesche, prime esportatrici negli USA, si tradurrebbe anche in un calo della domanda di input intermedi ai loro fornitori italiani: un canale quantitativamente rilevante, dato che la Germania è il primo mercato di sbocco dell’acciaio e dell’alluminio italiani.

Va inoltre considerato un altro aspetto spesso sottostimato, quello relativo alle barriere non tariffarie: non avendo i contorni ben definiti di una tassa da pagare ma assumendo le sembianze più subdole di una nuova certificazione obbligatoria, oppure di una più complicata procedura di sdoganamento, risulta difficile quantificarle e calcolarne l’esatto “tariff equivalent”, ma non per questo hanno un impatto minore sulle relazioni commerciali.

Quali scenari per il futuro? Una tesi provocatoria sull’Europa

L’introduzione di barriere commerciali, tariffarie e non, è insomma un gioco a somma negativa, in cui tutti i partecipanti perdono. Queste perdite, soprattutto, crescono fortemente nei turni successivi, provocando reazioni uguali e contrarie da parte dei paesi colpiti. La Cina ha già applicato contro-dazi su 3 miliardi di dollari di acquisti dagli USA e si appresta a vararne su altri 50 miliardi, in risposta alle prossime tariffe americane.

Ma se gli Usa possono permettersi un certo protezionismo perché economicamente solidi, e lo stesso può fare la Cina perché politicamente forte, a subire le conseguenze maggiori di un’escalation sarebbe l’Europa poiché è quella che maggiormente dipende dall’export. Anche se economicamente robusta, in questo scontro tra titani l’Europa rischia di trovarsi “tra incudine e martello” perché manca di quella coesione politica che le permetterebbe di esprimersi con una sola voce. E se anche il sistema multilaterale reggesse l’Europa rischierebbe comunque dal momento che gli USA sono sempre meno gli assorbitori della domanda mondiale, con conseguenze negative sull’offerta europea e sul suo surplus da esportare.

L’America, dunque, se da un lato non vuole cedere lo scettro della leadership globale alla Cina, dall’altro vuole rimescolare le carte in gioco anche con l’Europa: ponendo limiti alle sue esportazioni le intima di crescere di più internamente, di contribuire di più alla Nato, di investire di più.

È una provocazione quella che gli USA lanciano al Vecchio Continente, per spingerlo a compiere un passo di maturità intraprendendo un percorso di crescita interna e di investimenti che tutto sommato, dazi o non dazi, gli gioverebbero a prescindere. Il presidente della BCE Mario Draghi è di questo avviso, così come anche il direttore generale dell’FMI Christine Lagarde. Una tesi provocatoria questa sul futuro dell’UE, e quindi pure dell’Italia, sostenuta anche in occasione della conferenza organizzata da Ispi “Guerre commerciali. Cosa rischiano l’Italia e l’Europa” e che forse andrebbe presa seriamente in considerazione.

Fonte: a cura di Exportiamo, Miriam Castelli, redazione@exportiamo.it

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