Il drastico abbassamento nelle stime di crescita del Pil, il crollo della produzione industriale (-5,5%) e la diminuzione del numero di contratti a tempo indeterminato aprono uno scenario preoccupante per l’economia del Belpaese che sembra, di colpo, tornata fragilissima. Una delle pochissime note positive rimane l’export, ma senza un adeguato sostegno politico-istituzionale il Made in Italy potrà fare ben poco per risollevare le sorti della Penisola.

Serie difficoltà di tenuta economica”. Parole precise e pesanti quelle utilizzate dall’Istat per commentare il quarto calo mensile consecutivo della produzione industriale italiana ridottasi, nel giro di un solo anno, del 5,5%. Affermazioni che vanno a braccetto con quelle di Bankitalia che ha da poco abbassato le stime di crescita per il 2019 dall’1 allo 0,6%, sottolineando che l’outlook futuro più probabile è rappresentato da un’ulteriore ridimensionamento delle stime.

Lo scorso 6 febbraio, inoltre, l’Istat ha certificato la recessione tecnica dell’economia italiana causata dal secondo calo trimestrale consecutivo del Pil: -0,1% nel terzo trimestre del 2018 e -0,2% nel quarto.

Una situazione preoccupante aggravata dalle recentissime stime sulla crescita dei Paesi Ue per il 2019 elaborate dalla Commissione Ue con l’Italia fanalino di coda al +0,2% e con, a sorpresa, la Germania – nostro principale partner economico – penultima al +1,1%. Una crescita praticamente nulla che prelude a serie possibilità di ulteriori revisioni al ribasso che farebbero sprofondare il Belpaese nelle sabbie mobili di una recessione economica (e non più solo tecnica) con quasi inevitabile manovra correttiva.

Dal punto vista occupazionale invece l’Istituto Nazionale di Statistica ha diffuso dei dati leggermente più positivi con il tasso di disoccupazione che a dicembre 2018 si è attestato al 10,3%, in calo di 0,2 punti percentuali, ed una crescita del numero di occupati, rispetto a dodici mesi prima, di poco superiore alle 200mila unità. L’aumento ha però riguardato solamente i lavoratori a termine e gli indipendenti mentre sono invece diminuiti i lavoratori a tempo indeterminato.

Questo insieme di dati sono inequivocabilmente allarmanti anche se possono essere “spiegati” in base ad un ciclo economico internazionale che, dalla seconda metà del 2018, ha cominciato a virare in negativo. Dunque il rallentamento riguarda tutto il mondo ma il vero problema è che il Belpaese, a quanto sembra, si appresta a crescere di almeno un 1 punto percentuale in meno rispetto alla media europea, confermandosi fra le economie più fragili del Vecchio Continente.

Addossare quindi tutte le responsabilità al governo Conte sarebbe non solo sbagliato ma anche intellettualmente disonesto anche se, ad onor del vero, i provvedimenti messi in campo dal governo giallo-verde nei suoi primi 8 mesi di vita sembrano del tutto insufficienti a contrastare l’attuale congiuntura internazionale negativa.

Inoltre l’evidente discrasia fra le previsioni di crescita dell’esecutivo per il 2019 (+1%) e quelle dei principali istituti specializzati ed organizzazioni internazionali unite alle dichiarazioni del premier secondo cui questo “sarà un anno meraviglioso” non lasciano intravedere alcun ripensamento nella politica economica italiana. Riflessione che invece andrebbe fatta rivalutando con attenzione se è davvero opportuno procedere con l’attuazione di due misure come quota 100 e reddito di cittadinanza assai esose per il bilancio statale (costi stimati di circa 10 miliardi in deficit) ma i cui effetti espansivi appaiono assai discutibili.

Il “macigno” tedesco

Come accennato in precedenza l’evoluzione negativa dell’economia italiana degli ultimi mesi appare inasprita dalla brusca ed inattesa frenata dell’economia tedesca che, nel 2018, ha registrato il più basso tasso di crescita degli ultimi 5 anni (1,5%) e che dovrebbe registrare una performance ancora inferiore anche nel 2019. Tra le principali cause di questo rallentamento c’è stata la forte difficoltà delle case automobilistiche tedesche ma, più in generale, è tutta la produzione tedesca che sta frenando.

Una situazione che non ci può lasciare indifferenti dal momento che la Germania è il primo partner economico del Belpaese rappresentando sia il primo mercato di sbocco per il nostro export (12,5% del totale) sia il primo Paese di provenienza del nostro import (16,4% del totale). Nel 2017 infatti il nostro export verso Berlino ha sfiorato i 56 miliardi di euro mentre il nostro import ha di poco superato i 65 miliardi, generando un saldo commerciale negativo per il Belpaese per quasi 10 miliardi di euro. Un rallentamento dell’economia tedesca potrebbe quindi provocare una decrescita degli ordini di Made in Italy con conseguenze pesanti per molte Pmi esportatrici del Belpaese che basano la loro sopravvivenza sui rapporti commerciali intrattenuti con Berlino.

Le due economie, italiana e tedesca, sono quindi indissolubilmente legate e perciò lo stop teutonico potrebbe rivelarsi un vero e proprio macigno per il Made in Italy, come sottolineato anche dal Centro Studi di Confindustria che ha messo in evidenza l’interdipendenza delle principali economie europee ed in particolare che il successo dell’industria dell’auto tedesca dipende in buona misura dall’eccezionale componentistica italiana.

Export: unica speranza?

In un contesto tanto intricato l’export italiano di beni e servizi, che nel 2017 ha raggiunto la cifra record di 448 miliardi di euro, dovrebbe confermarsi – anche nel 2018 – come una delle pochissime voci dinamiche ed in salute dell’economia del Belpaese. Secondo i dati previsionali le vendite italiane all’estero dovrebbero esser cresciute intorno al 3% nel 2018, portando un po’ di ossigeno al tessuto economico ed imprenditoriale della Penisola.

Tuttavia non si registra da parte della classe dirigenziale del Paese la messa in opera di un piano serio per supportare l’export italiano nel mondo ed al contrario emerge una crescente insofferenza nei confronti di partner economici di assoluto rilievo (come la Francia), accompagnata dall’opposizione ad opere infrastrutturali come la Tav Torino-Lione di cui il Belpaese avrebbe bisogno.

Ed in effetti è proprio il gap infrastrutturale italiano rispetto ai principali competitor nei sistemi di trasporto delle merci a rappresentare uno dei nodi critici da risolvere al fine di promuovere un ulteriore sviluppo del nostro export in Europa e nel mondo. Sarebbe quindi opportuno che la nostra classe politica agisse con tempismo ed efficacia per non indebolire quella che, oggi come oggi, appare come una delle poche speranze di rilancio per l’economia italiana.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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