Sono passati esattamente 45 anni da quando l’economista tedesco Klaus Schwab, ha riunito per la prima volta - per quello che allora veniva chiamato “European Management Symposium” – le èlites della politica, dell’economia e della finanza mondiale a Davos.

Dal 1987 l’appuntamento è diventato il simposio per eccellenza “Impegnato a migliorare le condizioni del Mondo”, un impegno gravoso da attendere.

Stiamo parlando del World Economic Forum (WEF) che anche in questo 2016, dal 20 al 23 gennaio si è tenuto nel rifugio alpestre nel cantone dei Grigioni, eletto fin dal 1971 a luogo di incontro e di “culto”, inattaccabile.

Il Prof. Schwab è stato molto chiaro: “Non c’è mai stata un’epoca di più grandi promesse e pericoli”.

L’obiettivo delle riunioni annuali di è ragionare e cercare di agire per migliorare l’esistente o come chi contesta sostiene, lavarsi la coscienza e lanciare spesso iniziative solo di facciata, essendo divenuto nel tempo, il luogo dove fondamentalmente chi conta deve esserci anche perché, quello che appare, “esce” e viene sbandierato, non è certamente tutto quello che accade nei giorni del Forum, costellati da pranzi, cene e party riservati.

Oltre 2.600 i partecipanti, dal direttore del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde al premier inglese David Cameron, fino al leader degli U2, Bono e Leonardo Di Caprio.

Lo scorso anno il tema era stato il “Nuovo Contesto Globale” e l’Italia tra i protagonisti con un party tricolore, occasione utile per lanciare l’apprezzatissimo video sul nostro Paese, “Italy: the Extraordinary Commonplace”.

In questo 2016, oltre allo spettro aleggiante della cronaca finanziaria sull’andamento vertiginoso delle borse nella scorsa settimana che ha preso facilmente il sopravvento, il tema centrale è stato il cambiamento in atto che sta già attraversando le nostre esistenze e la nostra quotidianità e stravolgendo modelli di sviluppo e di produzione e l’intento dei convenuti è all’altezza delle loro ambizioni: “Mastering the Fourth Industrial Revolution”.

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Padroneggiare la quarta rivoluzione industriale, tema che come già sottolineato, viste le contingenze e gli astanti, non poteva non dividersi con la crisi della Cina e le difficoltà dei Paesi emergenti e con il rischio/minaccia “Brexit” che insieme alla tenuta degli Accordi di Schenghen per stessa ammissione della Lagarde, rappresenta la preoccupazione fondamentale a Washington.

Si sente parlare sempre di più di “Industria 4.0” e più in generale si riflette su come oggi, l’innovazione sia al contempo sviluppo e distruzione, con le tecnologie che continuano a cambiare l’economia rivoluzionandone gli equilibri.

Nella ricerca di una sempre maggiore produttività, gli esseri umani divengono facilmente sostituibili da una macchina nel proprio posto di lavoro, mentre Google come noto è alla ricerca di un partner nell’industria automobilistica per costruire la sua prima auto senza conducente e Toyota entro il 2020 ha in programma la presentazione del suo modello di auto iper-intelligente.

I numeri sono drammatici sul piano dell’occupazione e ad esempio negli Stati Uniti, secondo Carl Benedikt Frey e Michael Osborne dell’Università di Oxford, circa il 45% dei posti di lavoro sono facilmente sostituibili da una macchina.

Nel dominio della tecnica che non conosce antitesi e stravolge e deride in tempi sempre più netti anche se stessa, rimane il fattore umano nella programmazione e più che dai robot, come molti fanno notare, il nostro futuro dipenderà dagli algoritmi ovvero molto semplicemente nella loro complessità, insiemi di istruzioni da applicare per eseguire un’elaborazione o risolvere un problema.

Il limite tra creare e risolvere i problemi anche in questo caso appare labile se ad esempio si guarda al mercato dei cambi, un settore che negli ultimi anni è stato invaso dall’automazione con l’affermarsi delle soluzioni di high frequency trading aziende che utilizzano software per comprare e vendere azioni, obbligazioni e derivati in una frazione di secondo, mandando in pensione qualsiasi trader tradizionale e rendendo così possibili guadagni ad ogni minima oscillazione di prezzo.

A Wall Street più della metà delle transazioni passa proprio da queste tipologie di software e non è un caso che a quanto riporta il Financial Times i fondi speculativi di maggior successo oggi “assumono computer scientist molto più che economisti ed esperti di investimenti e usano le tecniche ‘quantitative’ abilitate dai moderni modelli computazionali e matematici”.

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Ma il limite è labile e sempre più spesso capita che l’high frequency trading sia causa della grande instabilità dei mercati e la velocità eccessiva delle contrattazioni può produrre gravi danni e basta pochissimo per cambiare le sorti di un’azienda quotata. Anche se chi difende questi nuovi sistemi afferma che solo un computer può elaborare tutta la mole di informazioni che muovono i mercati, secondo David Siegel, Co-direttore di Two Sigma e pioniere in materia, il quadro è il seguente:

“Il punto è che la mente umana è sempre la stessa dagli ultimi cento anni e i metodi tradizionali non bastano più per gestire la mole di informazioni prodotta dall’economia globale. Arriverà il giorno in cui nessun investment manager umano potrà battere il computer”.

Il dominio della tecnica e l’avvento dell’automazione, all’orizzonte e nel lungo periodo, porta al rischio di una “stagnazione secolare” come molti sottolineano, perché l’automazione aumenta la produttività delle macchine per rendere più basso l’investimento nella produzione e più alti i rendimenti nel lungo termine, generando una spirale di eccesso di risparmio che porta ad una contrazione delle dimensioni dell’economia.

L’impressione è che il mondo sia sempre più complesso e complicato e se l’anno scorso, la fine della crisi percepita alle porte, prometteva una lenta ma stabile ripresa, in realtà oggi è ancora tutto in movimento e di stabile c’è poco.

PricewaterhouseCoopers (PwC) come consuetudine ormai, ha presentato a Davos la sua ultima ricerca - giunta alla XIX^ Edizione - “Annual Global CEO Survey” che ha coinvolto oltre 1.400 capi di azienda di tutto il mondo, ascoltati in autunno per capire e carpire aspettative e tendenze nei confronti del 2016.

Le risposte fornite non lasciano molto spazio alle interpretazioni e le preoccupazioni crescono su tutti i fronti, ancora peggio se si considera il cauto ottimismo che aleggiava lo scorso anno.

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Le preoccupazioni maggiori per il business e la crescita economica per i leader delle aziende globali sono sempre rappresentati dall’eccesso di regole (79%), ma cresce poi la preoccupazione anche per tensioni geopolitiche (74%), volatilità dei cambi (73%), instabilità sociale (65%) ed attacchi informatici (61%): si inizia ad andare verso la soglia di allarme.

A crollare è l’ottimismo come accennato e se lo scorso anno il 37% dei CEO intervistati pensava che l’economia sarebbe andata meglio nei 12 mesi successivi, quest’anno la quota si ferma al 27%, meno di un terzo degli intervistati e il pessimismo è diffuso, senza compensazioni a livello geografico.

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La consapevolezza oggi è quella di un mondo che cambia direzione, non più unito da globalizzazione e tecnologia come ci si è illusi nell’ultimo decennio del novecento e in parte degli anni zero del terzo millennio, ma al contrario vede diminuire le convergenze e crescere le divergenze, una dinamica non proprio favorevole, esaltante e che fa ben sperare, ma fin troppo evidente sui diversi piani e a tutte le latitudini.

Siamo di fronte all’incertezza quindi, con un mondo diviso ed incerto sulla strada da prendere, quasi sovrastato dai problemi che si trova ad affrontare.

Insomma tutto è molto complesso e l’equilibrio può essere solo dinamico e di tendenza con tutte le variabili da tenere in considerazione, ma in realtà nell’ultima giornata del WEF anche in ragione della ripresa e del rimbalzo dei mercati finanziari, le cose sembrano essere tornate più umane e meno drammatiche e il messaggio di fondo è stato quello di aver consapevolezza che il mondo ha visto crisi peggiori.

Le cause in potenza capaci di spingere il mondo in una violenta crisi economica non mancano guardando al rallentamento dell’economia cinese, al rialzo dei tassi di interesse USA, al crollo dei prezzi delle materie prime e alle forti difficoltà delle economie emergenti, ma la giusta lettura e interpretazione di questi eventi potrebbero invece riportare il mondo alla normalità.

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L’economia mondiale è in condizioni migliori rispetto a quelle che viveva prima dell’ultima recessione.

Vi è oggi la convinzione abbastanza diffusa che il rafforzamento patrimoniale avvenuto a livello globale (per un ammontare totale di circa 4 mila miliardi di dollari) rende il settore bancario solido e senza rischi visibili di contagio, e da questo punto di vista, l’amministratore delegato di Credit Suisse, Tidjane Thiam ha sintetizzato così la situazione:

“Prima avevamo bilanci pesanti, usavamo un’alta leva finanziaria, c’era uno ‘spirito animale’ eccessivo, ora siamo in grado di passare oltre lo stress”

Andando alle materie prime invece, se per molti è un disastro, è altrettanto vero, hanno fatto notare, che l’energia a bassi costi stia sostenendo la crescita di India, Cina e Europa e di conseguenza anche la crescita della classe media in tutto il mondo, un altro segnale da leggere in maniera positiva per l’economia, in prospettiva.

Anche se i mercati subiscono ancora un forte effetto negativo derivante dalle condizioni dell’economia cinese e le prime tre settimane del 2016, hanno segnato il peggior inizio anno nella storia di Wall Street da sempre, anche sulla crisi della Cina esiste una lettura positiva possibile.

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Cristine Lagarde ha sottolineato come anche le scosse del dragone di questi ultimi anni si possano leggere in prospettiva positivamente perché “la Cina sta rallentando in modo controllato, e questa è una cosa positiva” e il risultato del rallentamento potrebbe essere la sostenibilità.

Quello che servirebbe ai mercati secondo la Lagarde, sarebbe un po’ più di chiarezza da parte delle autorità cinesi per poter diminuire le paure degli investitori.

Proprio a Davos nell’ultimo giorno era presente il vice presidente Li Yuanchao insieme a una schiera di economisti e - anche grazie alle rassicurazioni della Lagarde - i più si sono convinti che il paese non è sull’orlo di una crisi epocale, ma in una fase di trasformazione profonda, importante e necessaria per darsi una prospettiva sostenibile.

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Nella tavola rotonda conclusiva dedicata all’economia nel 2016 è stata confermata la previsione di una crescita economica globale non esaltante ma tuttavia positiva (+3,4%) secondo le stime al ribasso del FMI rispetto ad ottobre (+3,6%).

La convinzione generale è che andrà meglio per Europa e Stati Uniti che per i paesi emergenti.

Sarà un anno con molti alti e bassi nei mercati finanziari, dovuti al clima di incertezza generale che le crisi geopolitiche e le difficoltà economiche di alcuni Paesi e settori determinano.

Tra gli italiani presenti nell’ultima giornata del forum, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che si è schierato tra gli ottimisti:

“Non possiamo giudicare lo stato di salute dell’economia globale – ha spiegato – soltanto guardando ai mercati, altrimenti avremmo solo un quadro terribilmente pessimista. Ed invece l’economia reale non va così male, ci sono segnali promettenti”.

Ma è la geopolitica a rimanere la parte più preoccupante dal Medio Oriente alla minaccia terroristica, un arco di tensione attraversa il mondo partendo dal Nord Africa e giungendo fino al Sud Est Asia come dimostrato anche dai recenti attentati a Jakarta.

Il messaggio è dunque di cauto ottimismo e soprattutto di rimanere all’erta perchè rischi sono ancora molto alti e la possibilità di commettere errori enormi e compromettenti assolutamente alta e da non sottovalutare.

La crisi maggiore la attraversa invece l’Europa che come ha dichiarato il miliardario di origini ungheresi George Soros:

“L’Unione europea è in una crisi esistenziale. E’ a pezzi. E questo è un momento in cui è necessario disporre di una grande iniziativa, un piano Marshall”

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Il tempo inizia ad essere un fattore rilevante da parte della politica se si ha a cuore il progetto europeo e il problema dei rifugiati e le contraddizioni e le tensioni legate alla minaccia della Brexit un anno dopo la Grexit che animava il Forum lo scorso anno, lo dimostrano e la consapevolezza cresce.

Pare che abbiano riscosso molto successo tra i manager a Davos le sessioni di “Mindfulness” o arte della consapevolezza, una tecnica che lega la millenaria tradizione buddista alla psicologia scientifica occidentale, tenute da uno dei massimi esperti della materia, il medico Jon Kabat-Zinn che definisce così la disciplina e i benefici a la Repubblica:

“La mindfulness aiuta a mettere nelle relazioni umane passione e attenzione. Benvenuti alla pratica della mindfulness. Coltivandola in modo sistematico ne vedrete i benefici”

L’obiettivo della disciplina e il consiglio del maestro è quello di dedicare la massima attenzione al presente aiutando “a scoprire il valore del non sapere, insegnandoci a stare con noi stessi senza giudicare né pensare troppo, ma solo vivendo”.

I leader del mondo pare siano rimasti molto affascinati, non rimane dunque che sperare in questa nuova pratica della consapevolezza anche sul piano politico e sociale di fronte a un mondo incapace di offrire certezze ma che va affrontato, appunto “senza giudicare né pensare troppo, ma solo vivendo” e lasciando vivere senza pensare solo ai profitti, ma al destino di tutti che è anche quello di ognuno.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli, redazione@exportiamo.it

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