Negli scambi internazionali soprattutto per favorire la crescita con i Paesi in via di Sviluppo (PVS) quando bisogna fare i conti con una valuta non convertibile e con la difficoltà a reperire le dovute risorse e coperture finanziarie, il countertrade rappresenta una possibile via per rendere comunque possibili gli affari.

Questo tipo di operazione consente infatti di concludere scambi commerciali internazionali altrimenti preclusi dalla mancanza di disponibilità finanziaria da parte dell’impresa acquirente e si realizzano nella maggior parte dei casi fra le imprese dei Paesi sviluppati e quelle dei PVS e dei Last Developed Countries (LDCs).

I fattori che concorrono all’espandersi di tali operazioni commerciali, vanno ricercati ovviamente nelle particolari situazioni di ciascun paese - riconducibili all’indebitamento, alla limitata disponibilità di valuta, alla non convertibilità della valuta locale, alla necessità di sviluppare l’industria locale - ed è per tali ragioni che il countertrade ha assunto un ruolo sempre più rilevante negli scambi transnazionali.

Proprio per il loro carattere transnazionale, le operazioni di countertrade richiedono spesso l’intervento di una Trading Company - società esterna rispetto alle parti contraenti - per svolgere l’attività di intermediazione ed agevolare la vendita sui mercati internazionali dei beni ricevuti in contro-fornitura.

In sostanza in questo tipo di operazioni, l’esportatore accetta in pagamento dal paese importatore prodotti che poi rivenderà su altri mercati, sono da ricomprendere quindi tutte le pratiche contrattuali in cui le obbligazioni delle parti si risolvono in un reciproco flusso di beni e/o servizi, lasciando alla regolamentazione in denaro un ruolo solo marginale.

Per i paesi in via di sviluppo, il countertrade rappresenta uno strumento per sostenere l’occupazione, per garantirsi le tecnologie e per superare le barriere perché consente di effettuare scambi anche se i debiti sono molto elevati, creando un circuito commerciale “indipendente” che accresce le possibilità di vendere all’estero i propri prodotti e le proprie risorse.

Naturalmente tra le controindicazioni va invece segnalato l’aumento dei rischi e dei costi di transazione rispetto a quelli dello scambio tradizionale al quale si sostituisce e inoltre i prodotti offerti in realtà sono pochi e spesso di bassa qualità per i quali esiste una domanda limitata.

Anche le previsioni sulla redditività delle operazioni non posso essere fatte con precisione ma questo strumento è accettato, anche a fini commerciali e di immagine perché consente di continuare ad essere presenti in alcuni mercati con difficoltà di accesso ai mercati internazionali, aggirando la spinosa problematica finanziaria.

Per una panoramica completa è necessario a questo punto distinguere anche tra le diverse tipologie esistenti di countertrade partendo dalle forme più tradizionali (barter, compensation, counterpurchase e buy-back) per arrivare a quelle più recenti (offset e switch trading).

Il barter rappresenta lo scambio diretto di prodotti tra due partner e la transazione riguarda unicamente i due paesi interessati.

In questo caso l’operazione viene regolata da un unico contratto - concluso fra il fornitore e l’acquirente estero - per determinare modalità e condizioni dello scambio e individuare le merci che ne formano l’oggetto.

I beni appartengono a settori merceologici differenti e sono considerati di valore equivalente e solitamente non ricevono una valutazione monetaria.

I rischi principali riguardano in questo caso la qualità dei prodotti - che non è sempre costante - e il fatto che spesso si fa ricorso ad un prezzo di riferimento che può essere diverso da quello che gli stessi prodotti hanno sui mercati mondiali.

Nella compensation invece il venditore di un prodotto accetta in pagamento (parziale o totale) un prodotto o una materia prima da parte della controparte, si tratta di una forma simile al barter perché:

• Sussiste uno scambio reciproco di beni e/o servizi;
• I beni trasferiti non hanno affinità merceologica;
• La regolamentazione del rapporto avviene in base ad un unico contratto, che però presenta una durata più lunga.

La differenza sostanziale rispetto al barter, va individuata nel fatto che la compensation comporta fatturazioni da entrambe le parti, senza però dar luogo a pagamenti effettivi, ma a debiti o crediti in un “conto di compensazione” o clearing ed inoltre l’esportatore può trasferire ad una terza parte i prodotti ottenuti in compensazione.

Nel counterpurchase invece l’esportatore si impegna a comprare (o a trovare una terza parte che comprerà) i prodotti forniti dal paese al quale vuole vendere.

L’acquisto deve essere di valore pari alle consegne fatte oppure pari a una certa percentuale delle consegne stesse.

Il counterpurchase è costituito quindi da due contratti, il primo riguarda la vendita di prodotti e il secondo riguarda gli impegni che l’esportatore occidentale prende nell’ acquistare prodotti dal partner o da un’altra organizzazione designata dal partner.

In questo modo l’esportatore ottiene in breve tempo il pagamento a fronte della sua fornitura (oppure un credito) ed è inoltre obbligato ad acquistare i prodotti solo quando ha trovato quelli adatti e quando ha firmato il contratto di acquisto.

L’oggetto dei contratti nel counterpurchase, è l’indeterminatezza delle caratteristiche della prestazione pattuita nel contratto accessorio, che solleva problemi di ordine giuridico.

I prodotti sono collegati o non collegati all’oggetto del contratto principale, mentre per quanto riguarda il prezzo, spesso viene determinato in una fase successiva all’accordo di compensazione.

Nel caso invece del buy-back, il venditore di impianti, attrezzature e tecnologie a fronte di quanto consegna accetta in pagamento - parziale o totale - un prodotto fabbricato dalle stesse attrezzature o tecnologia che egli ha venduto.

E’ un tipo di operazione di medio o lungo termine e tiene conto del valore monetario dei beni scambiati, inoltre in tale tipologia, è necessario stipulare un protocol agreement che detta i termini generali dell’intera operazione, specificati poi anche in questo caso in due contratti distinti quello di cessione e quello di retrocessione.

I due contratti devono prevedere tutti gli elementi indispensabili per garantire la validità e la regolare esecuzione (es. tecnologie esportate, beni compensativi, valutazione monetaria ecc) ed è inoltre opportuno introdurre clausole per tutelare il contraente e una clausola con la quale l’importatore si impegna a non applicare ai prodotti esportati prezzi più alti di quelli che praticherebbe ai propri migliori clienti a pari condizioni.

Andando ad approfondire invece le nuove forme di countertrade, nel caso dell’offset, l’esportatore si impegna a realizzare o a procurare delle esportazioni a favore e per conto dell’importatore o di altri soggetti residenti nel paese acquirente in questo caso di parla di:

offset diretto, quando la cooperazione richiesta riguarda attività direttamente correlate all’oggetto del contratto principale;

offset indiretto, quando la cooperazione riguarda attività non direttamente collegate all’oggetto del contratto principale.

Per concludere un ultimo riferimento allo switch trading che si realizza in presenza di un accordo che consente al paese A che ha venduto tecnologie e prodotti al paese B di ricevere in pagamento quanto tale paese deve ottenere in cambio di esportazioni che lo stesso ha fatto verso il paese C.

In questo tipo di operazione, l’impresa esportatrice ottiene - in cambio dei prodotti esportati - un credito che cede ad intermediari specializzati, i cosiddetti switch dealers, i quali, a loro volta lo mettono a disposizione di altri operatori esteri.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Gerardo Schettino, redazione@exportiamo.it

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