Le elezioni di domenica rappresentano la conferma di quanto la Bosnia rappresenti un Paese diviso in cui le tensioni e le differenze etniche siano pronte ad esplodere. Appare dunque difficile che i neo-eletti siano in grado di intervenire su una serie di nodi irrisolti che frenano significativamente lo sviluppo del Paese dell’Est europeo.

Domenica scorsa si sono tenute in Bosnia le elezioni parlamentari e presidenziali con i cittadini chiamati a eleggere i tre membri della Presidenza della Repubblica ed a rinnovare i 42 membri della Camera dei Rappresentanti, il Parlamento nazionale.

La scelta di una presidenza tripartita fu fatta per limitare al massimo le dispute inter-etniche esplose nel corso della guerra che ha devastato il Paese nei primi anni ’90. Per questo la Presidenza della Bosnia è (atipicamente) costituita da 3 membri che rappresentano le tre principali comunità presenti nel Paese – bosniaca, serba e croata – e che assumono a rotazione la carica di presidente per un periodo di otto mesi.

Per la Serbia, come ampiamente previsto, a trionfare è stato Milorad Dodik, personaggio schieratosi apertamente a favore della secessione della parte serba della federazione (Republika Srpska). Egli, in campagna elettorale, si è addirittura spinto ad affermare che i muezzin bosniaci “urlano troppo” quando chiamano alla preghiera facendo così crollare il valore immobiliare degli appartamenti posti in prossimità dei luoghi di culto musulmani. Inoltre Dodik, considerato vicinissimo a Putin, vuole annullare il Rapporto di Srebrenica, documento con cui venivano riconosciuti i crimini commessi dai serbi contro i bosniaci.

In parole povere la sua elezione rappresenta un elemento fortemente negativo per la stabilizzazione dei conflitti etnici e sociali, di cui Sarajevo avrebbe tremendamente bisogno.

D’altro canto però gli altri due vincitori – Sefik Dzaferovic, per i bosniaci e Zaljko Komsic per i croati – sembrano poter almeno parzialmente mitigare le mire di Dodik, seriamente intenzionato a procedere alla divisione della nazione su base etnica. In particolare lo scenario peggiore appare scongiurato grazie alla mancata affermazione di Dragan Covic, molto vicino a Dodik.

Va ricordato che il fragile sistema delle istituzioni bosniaco è basato sugli accordi di Dayton del 1995, promossi dalla Comunità internazionale per mettere fine alla guerra, che stabilirono la divisione del territorio bosniaco in due entità: la Federazione della Bosnia ed Erzegovina, popolata da bosniaci e croati, e la Repunlika serpska, abitata da serbi.

Per quanto riguarda la suddivisione delle competenze la Presidenza ha poteri in materia di politica estera mentre al governo spetta prendere le decisioni in materia di sistema giudiziario, fisco, commercio e guerra. Tuttavia, per garantire un’eguale rappresentanza a tutte e tre le componenti, anche i ministri sono suddivisi in numero uguale fra le tre etnie ed il primo ministro, nominato dalla Presidenza con conseguente approvazione da parte della Camera dei Rappresentanti, deve essere di etnia diversa dal Presidente di turno della triade presidenziale.

In parole povere l’assetto politico odierno è volto a scongiurare ulteriori conflitti dal momento che nel Paese vi è una fortissima associazione fra identità etnica e religiosa e per questo motivo la fede costituisce un pericoloso strumento di distinzione fra le tre comunità: croati-cattolici, bosniaci-musulmani e serbi-ortodossi.

Anche per questo prima delle elezioni il vescovo cattolico Franjo Komarica aveva deciso di inviare un messaggio a tutti i fedeli invitandoli a non farsi ingannare dalle promesse dei soliti vecchi politici che hanno già dimostrato di “badare solamente ai propri interessi personali” sostenendo inoltre che la corruzione dilagante ha portato “migliaia di persone, spinte dalla necessità di sopravvivere, ad abbandonare il Paese andando all’estero”.

In sostanza la preoccupazione della Chiesa sembrava quella di favorire l’elezione di politici in grado di “fare della Bosnia Erzegovina un luogo in cui ogni persona, in qualsiasi parte viva, goda degli stessi diritti umani e libertà religiose e ogni nazione abbia diritti uguali e si senta protetta nella sua identità rispetto agli altri due popoli”.

Tuttavia nel corso della campagna elettorale a prendere il sopravvento è stata proprio la forte retorica nazionalistica tra le diverse etnie mentre sullo sfondo sono rimasti i veri e profondi problemi – corruzione, abusi di potere, emigrazione giovanile – del Paese cui dovrebbe essere trovata al più presto una soluzione.

A spaventare è soprattutto l’elezione di Milorad Dodik, che secondo alcuni analisti rappresenterebbe l’inizio della dissoluzione della Bosnia Erzegovina e il possibile ritorno ad un conflitto armato.

Infine si sottolinea come l’enorme numero di candidati (7500) suddivisi in 58 partiti politici e ben 36 coalizioni, dia l’idea di quanto la popolazione locale abbia compreso che la carriera politica (o l’iscrizione a uno dei tre principali partiti politici) sia uno dei pochissimi strumenti attraverso cui poter trovare una buona occupazione in un Paese con oltre il 20% di disoccupati.

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In un Paese diviso, ancorato a divisioni etniche e manovrato da politici populisti che non hanno alcuna intenzione di agire per un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione locale, le variabili macroeconomiche non possono essere esaltanti.

La crescita media dell’ultimo triennio (2015-2017), di poco inferiore al 3%, non deve fuorviare perché il Paese oltre al già citato problema occupazionale presenta un elevato tasso di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà (15,7%) ed una bilancia commerciale fortemente in passivo (oltre 4 miliardi di euro nel 2017).

Fra le riforme assolutamente necessarie ci sarebbe quella della pubblica amministrazione e della magistratura. Oltretutto dal momento che la Bosnia Erzegovina non ha materie prime e non può competere nella grande industria sarebbe opportuno mettere in campo una serie di aiuti economici volti a sviluppare un tessuto imprenditoriale di Pmi.

In questo senso il Belpaese avrebbe know-how di qualità da offrire al Paese balcanico, una mossa che sarebbe assai lungimirante perché contribuirebbe alla stabilizzazione di una nazione in grossa difficoltà e le cui contraddizioni potrebbero esplodere da un momento all’altro investendo anche la Penisola, vista la vicinanza geografica fra Roma e Sarajevo.

Nonostante gli elementi di criticità i due Paesi oggi intrattengono buone relazioni con un interscambio commerciale di poco inferiore a 1,4 miliardi di euro. Fra i principali prodotti italiani venduti in Bosnia si segnalano abbigliamento, calzature, pelletteria, food, macchinari ed apparecchiature.

Le più significative opportunità di penetrazione commerciale per i prodotti italiani sono rappresentate non solo dai beni di consumo, fiore all’occhiello delle produzioni tricolore, ma anche dall’atteso processo di privatizzazione di società bosniache nei settori telecomunicazioni, servizi ed agro-alimentare e dall’ammodernamento delle infrastrutture energetiche (in particolare centrali termo ed idroelettriche) e viarie (Corridoio Vc).

Infine si segnala che la Bosnia offrirebbe anche vantaggiose opportunità di delocalizzazione produttiva sia per la presenza di manodopera qualificata, a costi contenuti, sia per la crescente integrazione del Paese nello spazio economico regionale ed europeo ma ovviamente sui rapporti con il Belpaese peseranno moltissimi gli scenari post elettorali che ad oggi appaiono non del tutto rassicuranti e difficilmente prevedibili.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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