La politica britannica è in subbuglio dopo che sono trapelate le indiscrezioni sulla bozza d’accordo con l’Ue per implementare l’uscita (morbida) di Londra dal “Vecchio Continente”. Ed il governo di Theresa May sembra accusare il colpo.

La Brexit fa un deciso passo in avanti ed il governo di Theresa May si indebolisce: questo è quello che sta accadendo negli ultimi giorni dopo l’aggiornamento sullo stato dei negoziati fra Bruxelles e Londra, giunti a quanto pare ad un punto di svolta. Anche se i contatti fra le due parti continuano ed i contenuti dell’accordo verranno resi pubblici solo oggi, con la pubblicazione di un testo di circa 20 pagine, le linee guida dell’accordo sono note ed hanno già provocato un terremoto politico che ha portato alle dimissioni di due ministri del governo d’Oltremanica, Esther McVey, titolare del Lavoro, e Dominic Raab, responsabile proprio del dicastero della Brexit, che ha spiegato di non poter sostenere “un accordo che mette in pericolo l’integrità del Regno Unito” e di non tollerare più questo “backstop indefinito, dove l’Unione europea esercita il potere di veto sulla nostra uscita”.

Un compromesso che gli analisti definiscono “soft” ma che sta producendo effetti “hard” scontentando i sostenitori di un’uscita più radicale che osteggiano la possibilità di un allungamento del periodo di transizione oltre la fine del 2020 (si parla addirittura di 2022), durante il quale le regole europee rimarranno in vigore e quindi il Regno Unito continuerà a beneficiare dell’accesso al mercato unico e della libertà di movimento sul lavoro avendo però il dovere di continuare a contribuire al budget Ue senza poter inoltre finalizzare nuovi accordi commerciali.

La decisione di proseguire con le negoziazioni oltre il 29 marzo 2019, giorno in cui vi sarà la formalizzazione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, è stata mal digerita dalla gran parte dell’arco politico britannico che vede come fumo negli occhi un ulteriore slittamento di un processo che fatica a decollare.

Come evidenziato anche dal negoziatore capo dell’Ue, Michel Barnier, “ci troviamo in un momento decisivo di questi negoziati. Ora dobbiamo restare calmi e rimanere concentrati per consentire un’uscita ordinata del Regno Unito dall’Ue”. La verità però è che l’Ue non può far altro che aspettare e sperare in un mezzo miracolo perché è assai improbabile che la May riesca a convincere il Parlamento ad approvare l’intesa dal momento che, stando a quanto riportato sulla stampa britannica, oltre il 60% dei deputati è orientato ad opporsi all’accordo.

Il problema è numerico perché, dai primi conteggi, pare manchi l’appoggio di oltre 100 deputati all’accordo e dunque la May, se vuole evitare di essere sconfitta in Parlamento, o dovrà inventarsi qualcosa in fretta o sarà costretta a battere in ritirata, annullando il voto previsto per l’inizio di dicembre e riaprendo così il delicato tavolo dei negoziati con l’Unione.

Tuttavia, con l’intesa raggiunta, la May è riuscita ad ottenere anche alcune importanti concessioni dall’Europa fra cui lo stop alla libera circolazione delle persone, la cancellazione dei versamenti di denaro all’Europa e la fine della giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione Europea e delle politiche agricole comuni. Disgraziatamente per il premier conservatore la maggioranza del Parlamento britannico ritiene che tali “conquiste” abbiano comportato delle rinunce eccessive fra cui l’istituzione di una svantaggiosa unione doganale con l’Unione Europea, la creazione di un regime speciale per l’Irlanda del Nord, l’introduzione di un regime severo nei confronti del settore finanziario e, soprattutto, la prospettiva di un nuovo e lungo periodo di trattativa su una serie di altri temi.

Dunque mentre sembra certo che domenica prossima (25 novembre, ndr) la riunione straordinaria del Consiglio europeo darà il proprio placet alla bozza d’accordo, a preoccupare è invece il voto del Parlamento britannico previsto, salvo inconvenienti, per l’inizio di dicembre 2018.

Nel frattempo la May deve guardarsi anche dal “fuoco amico” perché, all’interno del partito conservatore, i supporter di una “hard Brexit” capeggiati dal deputato Jacob Ress-Mogg stanno organizzando una raccolta firme per sfiduciarla anche se al momento il quorum per attivare la mozione di sfiducia davanti al Parlamento (48 lettere firmate) è ancora lontano.

In generale sono in molti a ritenere che nel caso in cui il Parlamento respingesse la bozza di accordo, la May rassegnerebbe le proprie dimissioni ed il nuovo primo ministro avrebbe pochissimo tempo per negoziare un nuovo accordo prima del fatidico 29 marzo 2019, la data ufficiale dopo la quale il Regno Unito sarà ufficialmente fuori dall’Unione Europea.

Senza accordo, le conseguenze potrebbero essere molto gravi per l’economia britannica. L’ipotesi no deal infatti costituirebbe un rischio enorme per Londra visto e considerato che oggi, a dipendere dall’Unione Europea, sono quasi il 50% delle esportazioni e circa il 30% delle importazioni britanniche, che insieme rappresentano insieme il 60% del Pil del Paese.

Secondo alcuni esperti inoltre continuare a intrattenere relazioni commerciali con l’Ue senza accordo sarà praticamente impossibile, dal momento che ogni singola azienda britannica dovrà essere in grado di dimostrare sia di aver pagato le relative tariffe sia di aver rispettato gli standard di produzione europei provvedendo autonomamente ad ottenere tale certificazione (per le aziende Ue è data per scontata).

La disfatta politica avrebbe quindi un immediato impatto sociale e, probabilmente, è proprio per questo che fra i pochi sostenitori dell’accordo figura la Confederation of British Industry (Federazione confindustriale britannica, Cbi) che lo ha definito “un progresso duramente conquistato” che allontana per le imprese “lo spettro di un’uscita senza accordo” definito come “il peggior risultato possibile“.

Il futuro del Regno Unito è di fronte ad un bivio ed i più maligni suggeriscono che, anche se le possibilità di successo per la May sembrano ridotte, a tenerla politicamente in vita potrebbe essere proprio la presa d’atto che – data la complessità della situazione – nessun leader in questo momento ha realmente voglia di prendere il suo posto.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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