Le elezioni dello scorso 28 aprile, che hanno sancito la vittoria dei socialisti guidati da Pedro Sanchez, lasciano la Spagna, ancora una volta, in difficoltà nella formazione di un nuovo esecutivo. Al leader socialista, infatti, non basterà guadagnarsi il quasi scontato appoggio di Podemos per dormire sonni tranquilli ma dovrà racimolare voti fra i diversi (e spesso poco affidabili) partiti regionali entrati in Parlamento.

Con noi hanno vinto la democrazia e l’Europa, ha vinto il futuro. Mentre il passato e la restaurazione sono stati sconfitti”. Il messaggio di Pedro Sanchez, premier uscente e vincitore delle elezioni spagnole, è chiarissimo: gli spagnoli hanno scelto un progetto politico che intende opporsi con decisione all’ondata sovranista e nazionalista che spira ormai da tempo sul Vecchio Continente. Un’ondata che comunque ha raccolto adesioni anche sul territorio iberico con il partito di ultra-destra Vox in grado di ottenere il 10,3 percento delle preferenze e di entrare, per la prima volta nella sua storia, in Parlamento.

Un risultato su cui riflettere ma che, viste le premesse, fa tirare un sospiro di sollievo alle forze progressiste dal momento che il partito anti-femminista e contro l’immigrazione guidato da Santiago Abascal era stimato – alla vigilia delle elezioni – intorno al 20 percento.

Fra i grandi sconfitti delle elezioni figurano invece i popolari guidati da Pablo Casado e – di riflesso – Ciudadanos, il partito centrista di Albert Rivera che – pur avendo ottenuto il 15,9% delle preferenze – sembra aver mancato l’obiettivo principale dichiarato in campagna elettorale: andare al governo. Ciò soprattutto proprio a causa del Partito Popolare che ha addirittura fatto registrare la peggior performance della sua storia (16,7%), dimezzando i consensi ottenuti nella precedente tornata elettorale e, di fatto, rendendo quasi impossibile la formazione di un governo di coalizione di centro-destra. La somma dei deputati eletti dai tre principali partiti di centro-destra (147 deputati) – Partito Popolare (66), Ciudadanos (57) e Vox (24) – è infatti piuttosto lontana da quota 176, vale a dire dalla maggioranza assoluta necessaria per dare una minima stabilità al nuovo esecutivo.

Il vero problema è che nonostante il partito socialista (Psoe) sia riuscito nell’impresa di tornare ad essere la formazione politica più votata del Paese (28,7%), la sola alleanza con Podemos lascerebbe l’ipotetica coalizione a quota 165 deputati, 11 in meno rispetto alla maggioranza assoluta. Pertanto, visto e considerato che sembra da scartare la stramba alleanza con Ciudadanos (che pure avrebbe in dote 180 seggi), Pedro Sanchez – molto probabilmente – si troverà a costretto a confrontarsi con alcune delle formazioni regionali che, lo scorso 13 febbraio, determinarono la caduta dell’esecutivo da lui guidato.

In particolare contro il governo di minoranza in carica dal 2 giugno 2018 si schierarono i partiti secessionisti catalani che, fino ad allora, avevano garantito a Sanchez un solido appoggio esterno. Questo avvenne in conseguenza del rifiuto del leader socialista di aprire un trattativa per l’organizzazione di un referendum di autodeterminazione della Catalogna.

Oggi l’unico modo per evitare di riaffidarsi agli indipendentisti catalani, ed in particolare ad Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) che ha eletto ben 15 deputati, è allearsi con Podemos e nazionalisti. La somma dei seggi del Psoe (123), Podemos (42), Pnv (6), Coalición Canaria (2), Compromís (1) e Partido Regionalista de Cantabria (1) però si fermerebbe a quota 175, uno in meno della maggioranza rendendo il nuovo esecutivo molto vulnerabile. L’ultima ipotesi, che appare però quella più remota, è quella di verificare la possibilità di formare un governo monocolore Psoe con l’appoggio esterno di altre forze politiche anche se sembra che tale eventualità sia già stata scartata da Podemos. Insomma Pedro Sanchez si trova dinanzi ad un rebus di difficile soluzione e dovrà dimostrare determinazione e grinta non dimenticando che buona parte degli elettori spagnoli lo ha votato per ripartire da quella legge finanziaria su cui il governo Sanchez cadde in febbraio che prevedeva una serie di misure fra cui l’aumento del salario minimo del 22% a 900 euro, l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione, maggiori tasse per i redditi più alti e l’introduzione di un’imposta patrimoniale per i grandi capitali.

Rapporti con l’Italia

I rapporti fra Roma e Madrid sono, da sempre, ottimi sebbene fra i due Paesi vi sia anche una certa rivalità dal punto di vista commerciale. Lo scorso anno comunque l’interscambio commerciale fra i due Paesi ha superato i 45 miliardi di euro con un incremento dell’1,6% rispetto al 2017. Ad aumentare però è stato solamente l’export di Made in Italy verso la Spagna (+4,6%) che superato i 24,2 miliardi di euro mentre l’import italiano di Made in Spain è calato dell’1,7% attestandosi su 20,8 miliardi di euro.

Quel che è certo è che, anche per in futuro, la Spagna continuerà a rappresentare uno dei mercati di sbocco più fertili per le produzioni italiane (oggi è il quarto mercato di destinazione dell’export della Penisola) con un incremento annuo delle vendite che, secondo Sace, dovrebbe attestarsi fra il 5 ed il 6 percento annuo da qui al 2021.

Oggi c’è però una grande differenza fra Roma e Madrid ovvero l’andamento delle rispettive economie: mentre l’Italia arranca infatti la Spagna continua a stupire con un Pil che, lo scorso anno, ha registrato un balzo significativo (+2,6%), quasi il triplo rispetto a quello italiano (+0,9%). E non un caso visto che Madrid si trova al quinto anno consecutivo di crescita ed ha ormai superato l’Italia anche in termini di Pil pro capite (a parità di potere d’acquisto): 38.400 contro 38.200 dollari.

In più le prospettive future sorridono a Madrid: secondo il Fmi infatti la Spagna, nei prossimi 10 anni sarà, più ricca dell’Italia del 7% mentre dieci anni fa eravamo noi ad essere più ricchi degli spagnoli di circa il 10%. La chiave della rinascita spagnola è tutta nelle riforme degli anni scorsi che hanno restituito dinamicità al mercato del lavoro e competitività alle imprese. Tuttavia anche la Spagna deve fare i conti con alcuni problemi non di poco conto: un sistema industriale ancora troppo legato a grandi colossi, un tasso di disoccupazione in riduzione ma ancora molto elevato (14,5%) ed uno stock di risparmio privato molto più modesto rispetto a quello dei cittadini del Belpaese. Elementi di criticità da non sottovalutare ma che non possono cambiare il giudizio sul virtuoso percorso intrapreso da Madrid ormai da qualche anno.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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