Irlanda, fra crescita “gonfiata” e pericolo Brexit

Irlanda, fra crescita “gonfiata” e pericolo Brexit

20 Maggio 2019 Categoria: Focus Paese Paese:  Irlanda

Dublino si è definitivamente ripresa dalla crisi scaturita dalla bolla immobiliare del 2008 ed ha riportato la propria economia su un solido sentiero di crescita. La Brexit però rischia di riaccendere i contrasti con l’Irlanda del Nord. Vediamo perché.

Che l’Irlanda sia uno dei Paesi europei che, a livello di fondamentali macroeconomici, se la passa meglio è fuor di discussione: il Pil di Dublino, infatti, continua a crescere a ritmi superiori alla media Ue (+4,5% nel 2018) e, stando alle previsioni dell’Economic Intelligence Unit, dovrebbe continuare a farlo anche negli anni a venire (+3,1% annuo fra il 2019 ed il 2023). Ma a stupire ancor di più è il Pil pro capite della “tigre celtica”, (così soprannominata per i forsennati incrementi di Pil esibiti ormai da diversi anni che somigliano a quelli delle celebri tigri asiatiche) calcolato dal Fmi in ben 79.925 dollari, quinto al mondo ed inferiore solamente a Qatar, Macao, Lussemburgo e Singapore.

Ma come è possibile che si sia realizzato un cambiamento così radicale in un Paese che, all’inizio degli anni ’70, aveva un Pil pro capite di oltre un terzo inferiore alla media europea? La verità è che quel cambiamento si è determinato, in realtà, solo sulla carta e che dunque la condizione dei cittadini irlandesi è molto meno florida di quanto i dati possano lasciar credere. Ad esempio, stando ad i dati diffusi dall’Ufficio centrale di statistica irlandese, ci sono ancora moltissimi cittadini che vivono addirittura al di sotto della soglia di povertà. Si parla di circa 800mila persone, pari al 16,6% della popolazione locale.

Questo iato fra numeri e realtà nasce dal fatto che il Paese è diventato il quartier generale di grandi colossi come Amazon, Google e Facebook attratti da un fisco più che amico (corporate tax al 12,5%). E ciò causa una distorsione dei dati perché sia gli stipendi della forza lavoro domiciliata al di fuori dai confini nazionali sia gli utili ed i dividendi rimpatriati dalle società straniere vengono considerati nel calcolo della ricchezza nazionale facendola così lievitare di circa 1/3 e rendendola così molto più grande di quel che in realtà è. Tuttavia la presenza di numerose multinazionali ha anche delle implicazioni concretamente positive per l’economia irlandese come dimostrato dai dati relativi al mercato del lavoro, oggi vicini alla piena occupazione con un tasso di disoccupazione che, attualmente, oscilla fra il 5 ed il 5,5%.

La ripresa economica, comunque, appare solida anche perché sostenuta da una domanda interna in crescita stimolata dalla crescita dei salari dei lavoratori irlandesi anche se, sullo sfondo, permane un grande punto interrogativo che aleggia sul futuro di Dublino: la Brexit. Il processo di fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue infatti potrebbe avere pesanti ripercussioni sui rapporti fra Irlanda, repubblica autonoma, e Irlanda del Nord, uno dei quattro stati che costituiscono il Regno Unito. Le “due Irlande” infatti si sono rese protagoniste di un conflitto durato 30 anni (1968-1998) e che ha prodotto oltre 3000 morti e migliaia di feriti. Ancora oggi il lascito dei Troubles è ben visibile nel muro che divide Belfast in due e che separa il quartiere cattolico e repubblicano da quello protestante e monarchico.

Inoltre, pur essendo trascorsi oltre 20 anni dalla pace, le porte che dividono in due la città vengono aperte e chiuse ogni giorno a testimonianza del fatto che le tensioni fra le due fazioni non sono del tutto sopite. Secondo i più ottimisti invece la Brexit potrebbe rappresentare un’occasione per fare decisi passi avanti verso l’unificazione dell’Isola di Smeraldo, un processo che comunque – inevitabilmente – finirebbe con il produrre pericolosi squilibri.

La riunificazione avrebbe infatti delle conseguenze economiche oltre che sociali dal momento che l’Irlanda del Nord produce ogni anno un deficit di bilancio pari a 9 miliardi di euro e, al momento, esibisce dei fondamentali economici molto meno lusinghieri di Dublino che, dal canto suo, ha avuto l’indubbio merito di sfruttare al meglio l’affinità linguistica e culturale con gli Usa riuscendo ad attrarne le multinazionali e diventando così un importante punto d’appoggio di Washington per fare affari con il Vecchio Continente.

Inoltre qualora il processo di Brexit determinasse un irrigidimento della frontiera fra le “due Irlande” si conterebbero perdite economiche e di occupazione sia per le imprese operanti in prossimità del confine, sia per tutti i lavoratori che si spostano quotidianamente da una parte all’altra. In ogni caso è bene rilevare che l’eventualità di un’Irlanda unita è vista con minore avversione dai cittadini nordirlandesi rispetto al passato, come confermato da un recente sondaggio dell’Irish Times in cui il 32% della popolazione si è dichiarato favorevole alla riunificazione. La maggiore convergenza di opinioni fra le “due Irlande”, comunque, si è notata anche nelle preferenze di voto espresse dagli elettori nordirlandesi nel referendum che ha determinato la Brexit: il 56% di loro infatti si era espresso a sfavore dell’allontanamento di Londra da Bruxelles.

Comunque, la maggioranza degli attori politici coinvolti nell’implementazione della Brexit, sembra intenzionato a salvaguardare l’area di libero scambio agevolando il mantenimento di una cooperazione fra le “due Irlande”.

Rapporti con l’Italia

Le relazioni diplomatiche fra Roma e Dublino sono ottime come testimoniano le reciproche visite di stato che hanno visto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed il premier irlandese Leo Varadkar recarsi nei rispettivi Paesi nel corso dello scorso anno. A livello economico i rapporti sono buoni anche se l’interscambio complessivo non è entusiasmante (circa 5,5 miliardi di euro nel 2018). Inoltre le relazioni commerciali fra i due Paesi producono un saldo strutturalmente negativo per il Belpaese (oltre 2,1 miliardi di euro lo scorso anno) nonostante la Penisola rappresenti il settimo Paese fornitore dell’Irlanda. In particolare, nel 2018, l’export italiano ha battuto la fiacca arretrando del 24,2% rispetto al 2017, anno in cui aveva fatto registrare – al contrario – un vero e proprio boom (+34,1%).

Fra i beni Made in Italy maggiormente apprezzati in Irlanda spiccano prodotti chimici e farmaceutici che, da soli, costituiscono oltre il 50% dell’export italiano verso Dublino seguiti da macchinari, apparecchiature e mezzi di trasporto che, insieme, raggiungono circa il 20% del totale delle vendite tricolori. Più indietro si posizionano altre categorie di beni normalmente molto richieste all’estero come prodotti agroalimentari e articoli d’abbigliamento che contano per meno del 10% sul totale dell’export italiano in Irlanda.

Infine si segnala che, anche se secondo SACE le vendite italiane andranno a gonfie vele nei prossimi anni, con percentuali previste d’incremento annuo oscillanti fra il 7 e l’8 percento, il crollo dell’export Made in Italy verso l’Irlanda del 2018 suggerirebbe di assumere un atteggiamento di maggiore prudenza visto che la performance attesa era di un +9,1%.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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