Dopo mesi di stallo dovuti alla pandemia, la ripresa delle attività commerciali è stata molto più veloce rispetto alla domanda che gli spedizionieri erano preparati ad affrontare, causando disagi, ritardi ed un inevitabile aumento dei prezzi.

Congestionamento dei porti, aumento dei prezzi, carenza di container, noli ai massimi livelli. Stiamo vivendo quella che è stata definita da alcuni specialisti una delle più grandi crisi della storia da quando, durante la Seconda Guerra mondiale, i container hanno cominciato ad essere utilizzati.

Ora che l’economia internazionale sta cominciando a recuperare terreno e i consumatori chiedono sempre più prodotti provenienti dall’estero, il sistema dei trasporti globale sta facendo fatica a sostenere questa domanda e alcune grandi aziende stanno già pensando di trasformarsi esse stesse in spedizionieri. Ad agosto la grande catena di distribuzione americana Walmart ha deciso di far arrivare la merce con delle proprie navi portacontainer. In Europa, adesso, è il caso di Ikea, che ha cominciato non solo a noleggiare portacontainer, ma ad acquistare anche container propri.

Le cause della crisi

La carenza di container è dovuta soprattutto alla domanda pressante nei grandi porti dove i flussi delle esportazioni sono più consistenti, perlopiù in Asia, Stati Uniti ed Europa. Durante la pandemia, la riduzione della domanda ha frenato la produzione, ma ora che è esplosa nuovamente, la disponibilità attuale di container non riesce a farvi fronte. Inoltre, le misure da adottare per limitare la diffusione dei contagi comportano ulteriori rallentamenti e chiusure. Ogni volta che c’è un caso positivo, la produzione si ferma così come le operazioni all’interno dei porti, causando un disagio generale. È ciò che è successo nel porto cinese di Ningbo-Zhousha ad agosto, chiuso dopo che un lavoratore è risultato positivo al Covid.

I porti sono congestionati e circa il 7% delle navi sono oggi ferme al largo per mancanza di attracchi nei porti.

A ciò bisogna aggiungere anche eventi imprevisti, come il blocco del canale di Suez durante la scorsa primavera.

Due le conseguenze di questa situazione: un costo altissimo per il trasporto internazionale e lunghissime file di navi nei porti più movimentati, con attese che hanno raggiunto gli 8 giorni nel porto di Los Angeles. Il ritardo medio dei container è triplicato nel primo semestre rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, secondo il ceo di Hapag Lloyd Rolf Habben.

Quanto ai costi, se prima il costo per trasportare un container dalla Cina alla costa occidentale degli Stati Uniti era circa 2.000 $, oggi bisogna pagarne quasi 20.000.
Allo stesso modo il prezzo di un container dalla Cina fino in Argentina è più che raddoppiato, secondo i dati della Banca Interamericana dello Sviluppo, e si teme che fino alla fine dell’anno possa aumentare addirittura di tre o quattro volte.
Per quanto riguarda l’Europa, invece, si spendono oggi circa 14.000 $ per una spedizione dalla Cina. L’aumento maggiore di prezzo c’è stato nella tratta Shangai-Rotterdam, in Olanda, dove il costo è aumentato del 659%.

Alla base di questo aumento c’è la cosiddetta “crisi dei container”, ovvero una scarsità dello spazio disponibile per il trasporto dei prodotti dall’Asia verso l’Occidente.

Rallentamenti nella produzione

Oltre alla scarsità di container, c’è il problema della produzione. Molte aziende cinesi stanno producendo di meno perché spesso si trovano costrette a chiudere per dei casi di positività, bloccando la produzione per 15 giorni.

La pandemia ha avuto gravi effetti negativi su tutta la catena di approvvigionamento, dalla scarsità delle materie prime o di manodopera alla mancanza di spazio nelle navi cargo e nei terminal marittimi.

L’80% della merce consumata nel mondo è trasportata via mare, secondo i dati della conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo. Inevitabilmente, questi problemi stanno facendo lievitare i prezzi di tutti i prodotti. Inutile dire che gli effetti di questo caos li pagheranno cari soprattutto i consumatori finali. Molti analisti cominciano a riflettere sugli effetti della globalizzazione e si chiedono se non sia il caso di tornare a produrre in locali più vicini al mercato finale.

Le aziende da anni lavorano con fornitori sparsi in tutto il mondo, con scorte minime e una logica just in time. Adesso le cose dovranno cambiare e la pianificazione a lungo termine si sta rivelando fondamentale.

I settori più colpiti vanno dall’abbigliamento all’automobilistico, dalle calzature all’arredamento, a causa della delocalizzazione nel Sud Est asiatico dei grandi produttori di beni di consumo.

Il colosso Toyota, ad esempio, ha già annunciato che dovrà ridurre la sua produzione del 40% nei prossimi mesi.

Per le materie prime, c’è scarsità di legname, acciaio e altri metalli. In Italia, i grandi pastifici sono preoccupati invece dalla scarsità di grano preannunciando già un aumento di prezzi del prodotto finale.

Si teme per le vendite natalizie

A Natale molti dei regali che siamo soliti acquistare, un nuovo paio di jeans o scarpe, potranno essere merce rara. Come è risaputo, moltissime aziende hanno delocalizzato la loro produzione nel sud est asiatico negli ultimi anni e oggi stiamo pagando gli effetti della globalizzazione.

Per le grandi imprese americane, il problema della produzione si sta rivelando più grave del previsto. Più di 80 imprese, come Nike, Gap e Abercrombie, hanno perfino chiesto al presidente Biden di intervenire aumentando le forniture di vaccini al Vietnam. Basti pensare che Nike dipende dal Vietnam per metà della sua produzione.

Molte fabbriche, tuttavia, spesso sono costrette a fermarsi e anche quando la merce arriva nei porti, non sempre viene imbarcata e smistata velocemente. Per questo motivo, si sta spesso optando per il trasporto aereo, ma con un inevitabile aumento dei prezzi.

Adesso l’attenzione è tutta rivolta al Black Friday, ormai imminente, e al Natale. La previsione è che la domanda aumenterà ancor di più e si teme che molta merce non arriverà in tempo. È per questo che numerosi importatori, soprattutto di prodotti elettronici, stanno anticipando gli ordini, perché per i prossimi mesi si attendono grandi difficoltà. Nonostante questo, si teme che sotto l’albero di Natale molti regali mancheranno.

Insomma, gli effetti della pandemia hanno messo in luce tutte le debolezze della globalizzazione, la cattiva gestione dei porti, la scarsa resilienza del settore di fronte ad eventi imprevisti. Non si può prevedere cosa succederà nei prossimi mesi, ma alcuni analisti sostengono che gli effetti di questo caos dureranno almeno fino ai primi mesi del 2022. Probabilmente, si tratta di un momento cruciale, che comporterà cambiamenti radicali nel settore dei trasporti e nella gestione e pianificazione delle produzioni.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Mariavittoria Petrosino, redazione@exportiamo.it

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