«Il futuro di un Paese ricco di risorse umane e materiali rischia così di essere distrutto»

Sale la tensione in Libia. Domenica 24 agosto due caccia hanno bombardato le postazioni della coalizione filo-islamica Libyan Dawn, formata in maggioranza dalle milizie della Brigata Misurata, che da sabato tengono sotto controllo l’aeroporto di Tripoli. Dall’altra parte del campo di battaglia le forze nazionaliste di Zintan, guidate dal generale Haftar. Dopo le accuse mosse a Francia ed Italia di essere gli autori dei raid, prontamente respinte da Parigi e Roma, gli islamisti sostengono il coinvolgimento di Egitto ed Arabia Saudita. Il Presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi nega l’intervento del proprio Paese, nonostante il Ministro degli esteri Sameh Shoukry abbia recentemente dichiarato che “le tensioni in Libia rappresentano una minaccia per i Paesi confinanti ed impongono un intervento per ripristinare il ruolo dello Stato libico”.

Per capire il punto in cui si trova oggi la Libia é necessario fare un breve salto all’indietro. La situazione nel Paese ha iniziato a farsi sempre più pesante da dicembre 2013 quando il Consiglio Nazionale (GNC), che governava il Paese dopo la caduta di Gheddafi avvenuta a seguito dell’intervento della NATO nel marzo 2011, ha votato per l’applicazione della Sharia. Ciò ha provocato nel febbraio 2014 la reazione del generale Khalifa Haftar, portavoce delle fazioni non islamiste e laiche, che ha chiesto la dissoluzione del GNC senza però ottenere alcun risultato. La guerra civile é esplosa poco dopo, il 16 maggio con il lancio dell’ “operazione dignità“, ossia il bombardamento delle postazioni dei gruppi islamisti radicali a Bengasi.  Il 25 giugno le elezioni hanno portato al trionfo delle coalizioni laiche, ma le milizie islamiste non hanno riconosciuto la legittimità dei risultati elettorali ed il 13 luglio hanno formato la coalizione Libyan Dawn e lanciato un’offensiva contro l’aeroporto di Tripoli, annunciandone la caduta il 23 agosto. Intanto il parlamento libico, in esilio a Tobruk dopo la proclamazione del Califfato islamico a Bengasi, ha nominato un nuovo Capo di stato maggiore, il colonnello Abdel Razzak Nadhuri, in sostituzione di Abdessalam al-Abidi, dimesso il 10 agosto a causa della sua incapacità di arginare le milizie islamiche a Bengasi ed a Tripoli. Da Bengasi si rafforza l’appello di Ansar al-Sharia, il gruppo islamista salafita responsabile della morte dell’ambasciatore americano Cristopher Stevens l’11 settembre 2012, che controlla circa l’80% della città libica, il quale rivolgendosi alle altre milizie islamiste, in particolare quelle dell’ovest, esorta: “Unitevi ai mujaheddin, per la Sharia, per il rifiuto di qualsiasi progetto occidentale”.

Il Paese preoccupa la comunità internazionale ed il premier italiano Matteo Renzi esorta l’Unione Europa ad affrontare tale sfida invece di limitarsi alle solite dichiarazioni d’intenti. Il Ministro degli Esteri Federica Mogherini ha rinnovato un appello per trovare al più presto una soluzione condivisa e ricostruire il Paese sulla base di istituzioni democratiche: “la Libia attraversa il momento più difficile dalla rivoluzione ad oggi ed é come sempre la popolazione a pagare il prezzo più alto” e continua “decine di migliaia sono gli sfollati mentre molti cittadini e stranieri stanno lasciando la Libia. Il futuro di un Paese ricco di risorse umane e materiali rischia così di essere distrutto”. “Non si può non condannare le violenze che nelle ultime settimane hanno coinvolto le aree residenziali e non, infrastrutture e impianti di energia elettrica e idrici, e che hanno visto l’impiego di armi pesanti e bombardamenti aerei”. “Una profonda amicizia e vicinanza, non solo geografica, ci lega al popolo libico. L’ambasciata d’Italia rimane aperta per sostenere, tra le altre cose, la nostra comunità in queste circostanze drammatiche”. “Nonostante i gravissimi scontri a Tripoli e a Bengasi, e il clima di violenza, odio e sfiducia sempre più forti, credo che il popolo libico e tutti i suoi rappresentanti debbano trovare il coraggio politico di mettere fine a un conflitto in cui saranno tutti a pagare, con la disponibilità alla ripresa del dialogo per una soluzione negoziata. È ancora possibile per i libici salvare un futuro oggi minacciato, ma temo che non lo sia per molto. Per questo occorre che tutti i Paesi che come l’Italia hanno a cuore la sorte della Libia lavorino insieme, e con lo stesso coraggio, per favorire il cessate il fuoco e promuovere un processo politico che non escluda nessuno”.

L’unica ambasciata aperta in Libia rimane quella italiana, la cui sede é diretta dall’amb. Giuseppe Buccino Grimaldi, e tra tutte le compagnie petrolifere occidentali, ossia Total, Respol, BP, ExxonMobil e Cnpc, continua la sua attività solamente l’Eni con l’estrazione di 200-240 mila barili di greggio al giorno dai pozzi e dalle piattaforme offshore per garantire al nostro Paese la copertura del 27% del proprio fabbisogno nazionale. Al giro d’affari sul petrolio libico, che valeva tra  i 55 ed i 70 miliardi di dollari annui, si va sostituendo quello del crimine organizzato, il contrabbando di armi, droghe e migranti, che sfiora i 5-6 miliardi.

In vista della riunione che si terrà alle Nazioni Unite, i prossimi giorni sembrano cruciali al meno per ottenere l’imposizione di un cessate il fuoco in Libia.

Fonte: elaborazione a cura di Exportiamo su dati ANSA, La Stampa, il Fatto Quotidiano, Corriere della Sera e http://www.esteri.it/MAE/IT Di Barbara Alessandrini, b.alessandrini@exportiamo.it

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