Le motivazioni che spingono un imprenditore ad entrare in un altro mercato sono molteplici, possiamo tuttavia identificare due ragioni principali:

a) l’interesse ad incrementare il proprio business con mercati target selezionati;
b) la ricerca di possibili componenti a basso costo o non presenti nel Paese in cui è localizzato il business.

Nel primo caso l’impresa potrebbe anche gestire dall’Italia un processo che porta a semplici esportazioni, fermo restante la possibilità di investire direttamente nel Paese qualora il mercato lo richieda.

Nel secondo caso è possibile una frammentazione della struttura aziendale e/o dei processi produttivi in modo da trasferire in un altro Paese alcune fasi strategiche con l’intenzione non solo di ricercare bassi costi, ma anche di consolidarsi in determinate aree geografiche.

Ultimamente si sta verificando anche un terzo caso, le imprese hanno iniziato a trasferire la produzione in altri Paesi per servirsi di questi non solo come possibili mercati finali dei loro prodotti, ma anche come basi per raggiungere mercati limitrofi che altrimenti sarebbero impenetrabili (soprattutto nel Sud-Est asiatico e in alcuni paesi dell’Africa centrale).

In ognuna di queste situazioni va identificata un’adeguata strategia d’ingresso spesso costruita in base al mercato di riferimento e al coinvolgimento aziendale.

L’azienda che avvia un processo di ingresso in un determinato Paese si ritrova a dover affrontare un riadattamento non solo della struttura di produzione, ma anche della natura stessa dell’impresa, che cambierà il suo DNA partendo dalla Vision e dalla Mission aziendale.

Questo processo si evidenzia maggiormente nelle PMI che, obbligate a ristrutturarsi, formano “finalmente” un middle management con competenze anche internazionali.

Ogni fase del processo d’investimento all’estero deve essere gestita con la massima attenzione, dal momento che non sarà possibile intervenire immediatamente per risolvere eventuali problematiche.

La nuova struttura avrà bisogno di procedure scritte in più lingue ed in genere si predilige usare l’inglese (e non l’italiano) come lingua base oltre a quella del Paese ospitante.

Proprio le differenze culturali saranno la causa delle prime questioni interne: la redditività del personale, le regole, gli usi e le consuetudini locali che il management designato dovrà saper gestire.

Una volta iniziato il processo la stessa azienda madre non potrà evitare adeguamenti e modifiche anche se è capitato di veder rallentare, a causa del sopraggiungere di resistenze, l’inevitabile processo di cambiamento scaturito da un processo d’internazionalizzazione.

Con questo processo le opportunità aumentano in maniera esponenziale, sta solo ai rispettivi proprietari (insieme ai relativi MD) cercare di trasmettere i vantaggi affinché si ripercuotano su tutto il gruppo.

I vantaggi di cui si parla non sempre sono immediatamente misurabili in termini di minori costi. Si parla di arricchimento globale dell’azienda anche nel caso in cui si concretizzi uno scambio fra due culture che porta inevitabilmente a un incremento di creatività, di conoscenze e di sviluppo, oltre ad una visione più aperta del business.
Il gruppo quindi cresce grazie alla fusione di esperienze e competenze che generano linfa vitale che a sua volta genera maggiori opportunità.

Vediamo ora quale impatto può avere su alcune funzioni aziendali una corretta strategia d’ingresso diretto sui mercati esteri:

Vendite
Maggior controllo dei mercati target, feedback constanti e una capacità di reazione più tempestiva alle richieste generate dal mercato o anche alle eventuali minacce portate della concorrenza oltre all’opportunità di ottenere forniture più costanti, qualitative ed economiche;

Ricerca & Sviluppo
Stimolare le attività di R&S “personalizzate” in base alle caratteristiche ed esigenze del mercato target;

Risorse Umane
Semplicità nell’accedere a risorse umane locali qualificate e che conoscono bene il mercato anche se, spesso, si ricorre a manodopera straniera meno specializzata.

Inoltre si ricorda che l’accesso alla finanza internazionale diventa un obbligo per un’azienda che investe all’estero. Questo favorisce l’abbandono dei sistemi finanziari nazionali concedendo la possibilità di confrontarsi con altri sistemi e fonti di finanziamento. Inoltre, non sono da sottovalutare gli incentivi che alcuni Paesi mettono a disposizione per attirare gli investimenti. La presenza sul mercato target permette infine di migliorare il networking, instaurando relazioni e legami internazionali che possono portare importanti benefici all’impresa.

Ovviamente un processo di investimento diretto all’estero non è privo di rischi per l’imprenditore che si possono essenzialmente ricondurre ai seguenti casi:

  • rischio di perdita di volumi durante il trasferimento aziendale;
  • rischio di perdita del controllo dell’azienda o di riduzione di qualità e/o perdita d’immagine. Questo rischio è facilmente arginabile quando l’imprenditore tende a sviluppare contestualmente quel middle management al quale dovrà inevitabilmente affidarsi per controllare strutture più grandi;
  • rischio legato al trasferimento di know-how che può essere sensibilmente ridotto, ad esempio, quando all’estero si replica in modo strategico solo una parte del processo;
  • rischio Paese, questo tipo di rischio va monitorato costantemente quando si approcciano mercati meno stabili. In un mercato considerato “più rischioso” è meglio ridurre al minimo gli investimenti in asset durevoli e se possibile anche in parte degli impianti.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Daniele Trimarchi, redazione@exportiamo.it

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