Il mondo guarda con apprensione alle ultime mosse del presidente americano ed ai suoi effetti sull’economia mondiale.

Donald Trump non ha nessuna intenzione di fermarsi e getta benzina sul fuoco su quella che ormai commentatori ed analisti definiscono unanimemente come una vera e propria guerra commerciale che potrebbe avere (e in parte già sta avendo) significative ripercussioni su crescita e volume di interscambio a livello globale.

L’ultimo annuncio, risalente allo scorso 14 giugno, riguarda l’imposizione di nuovi dazi, al 10%, su altri prodotti cinesi per un valore complessivo stimato di circa 200 miliardi. Ma se Pechino deciderà di reagire all’entrata in vigore di nuovi dazi questa cifra potrebbe addirittura raddoppiare arrivando a toccare quota 400 miliardi di dollari. Da quanto filtra infatti una eventuale risposta cinese porterebbe gli States ad alzare ancora la posta arrivando a sanzionare la quasi totalità dell’export cinese negli Usa, stimato in 505 miliardi di dollari annui.

Appare dunque chiaro che in questo braccio di ferro il presidente statunitense abbia il coltello dalla parte del manico dal momento che l’eventuale controffensiva cinese non avrebbe lo stesso peso economico dell’attacco americano per il semplice fatto che l’export stelle e strisce in Cina vale “appena” 130 miliardi di dollari annui.

Tuttavia la Cina non sembra avere intenzione di restare a guardare ed ha annunciato l’intenzione di introdurre tariffe in grado di colpire prodotti statunitensi per 50 miliardi di dollari. A dire la verità Pechino avrebbe a disposizione altri strumenti per rispondere con maggiore efficacia alle misure volute da Trump fra cui una consistente vendita di titoli di stato Usa al fine di provocare un incremento dei tassi d’interesse e rendendo così più esosi i prestiti erogati a Washington.

Un’altra possibilità riguarda invece l’imposizione di severe normative che colpiscano alcuni colossi Usa che producono in Cina come Apple, Boeing e Nike che generano rispettivamente il 20, 14 e 12 percento del loro fatturato complessivo sul territorio del Dragone asiatico. Un’ultima e al momento meno probabile opzione sarebbe invece quella che porterebbe ad una svalutazione dello yuan al fine di mitigare gli effetti dei dazi americani sui prodotti made in China.

La tappe dello scontro

Al fine di comprendere meglio le origini dello scontro è bene ricordare le (finora) tre tappe fondamentali della guerra commerciale in atto fra Washington e Pechino.

23 marzo 2018 – Entrano ufficialmente in vigore i dazi su acciaio (25%) ed alluminio (10%) nei confronti di Pechino più volte minacciati dal tycoon statunitense.

2 aprile 2018 – La risposta cinese non si fa attendere e si abbatte su ben 128 prodotti made in Usa su cui vengono aumentati i dazi di una percentuale variabile fra il 15 ed il 25% e per un valore complessivo pari a 3 miliardi di dollari. Nel dettaglio il prelievo del 25% è stato riservato alla carne di maiale il cui import annuo vale 1,1 miliardi di dollari mentre viene introdotta un’aliquota del 15% su circa 120 articoli fra cui mele, uva, vino, mandorle, tubature d’acciaio.

14 giugno 2018 – Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump annuncia ufficialmente nuovi dazi, al 25%, su una lunga lista di prodotti made in China (si parla di circa 800 differenti tipologie di prodotti) per un valore di circa 50 miliardi di dollari. Anche se non è ancora chiaro quando la misura entrerà in vigore Trump ha voluto sottolineare che si tratta di una risposta all’aggressione economica cinese in materia di trasferimento tecnologico: “Gli Stati Uniti non possono più tollerare di perdere la propria tecnologia e la proprietà intellettuale a causa di pratiche economiche scorrette“. Secondo alcune indiscrezioni le tariffe potrebbero essere applicate in diverse fasi.

Gli effetti sul mondo e sull’Italia

Come è facile immaginare lo scenario di un’escalation di una guerra commerciale fra Usa e Cina produrrebbe una riduzione della crescita e del commercio globale, alimentando un clima d’incertezza che finirebbe per favorire titoli di stato meno rischiosi rispetto a titoli di stato più rischiosi, come quelli italiani. In buona sostanza per il Belpaese potrebbe diventare più complicato finanziare il proprio debito pubblico.

Inoltre come sostenuto anche da Sace nel Rapporto Export 2018in questo braccio di ferro con i principali partner mondiali per ridurre il deficit commerciale, l’amministrazione statunitense difficilmente terrebbe fuori Bruxelles”. Il risultato, secondo la società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti, sarebbe un abbassamento della crescita globale dello 0,5% nel 2018 e di quasi 1 punto percentuale nel 2019 mentre il commercio mondiale si ridurrebbe dell’1% quest’anno e del 2% il prossimo.

Lo scenario di una Trade War resta comunque altamente improbabile ed è stimato da Sace fra il 5 ed il 10% ma nel caso in cui si verificasse presenterebbe tuttavia un conto che molto salato al nostro Made in Italy il cui export “frenerebbe di quasi due punti percentuali quest’anno e di oltre 3,5 punti l’anno prossimo”.

D’altro canto però la stessa struttura industriale italiana, dominata da Pmi, darebbe al Belpaese l’opportunità di “reindirizzare il proprio export e/o rilocalizzare parte della propria produzione verso mercati alternativi con maggiore flessibilità rispetto alle grandi corporation”. Un vantaggio che in una situazione d’emergenza potrebbe rivelarsi molto prezioso per la zoppicante economia della Penisola.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Marco Sabatini, redazione@exportiamo.it

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