Alaska: l’ultima frontiera americana in crisi

Alaska: l’ultima frontiera americana in crisi

07 Marzo 2016 Categoria: Focus Paese Paese:  USA

“The last frontier” questo rappresenta nell’immaginario collettivo a stelle e strisce lo Stato dell’Alaska che non ha contiguità territoriale con il territorio degli Stati Uniti, essendo collocato nell’estremità nord-orientale delle terre emerse del continente Nord Americano: parliamo di una terra di splendide meraviglie naturali e ricca di risorse.

L’Alaska è lo stato più grande della Federazione e si estende su un’area dieci volte più grande della superficie media degli altri stati (1,718 milioni di km2). Il territorio fu acquistato dalla Russia nel 1867, a circa due centesimi per acro e, dopo aver attraversato diversi cambiamenti amministrativi, fu organizzato come territorio solo nel 1912, accrescendo successivamente - durante le due guerre - la sua importanza strategica per gli Stati Uniti e giungendo ad essere degno della stella solo il 3 gennaio 1959, quando fu promosso 49^ Stato federato, seguito cronologicamente solo dalle Hawaii nell’agosto dello stesso anno.

La popolazione dell’Alaska conta circa 735.000 abitanti e circa la metà vivono nell’area metropolitana di Anchorage, il centro principale dello stato, un agglomerato urbano, altamente trafficato, un centro per fare shopping che per l’altra metà della popolazione che non ci vive, non è in armonia con l’immagine tradizionale del paese, ma rimane la tappa inevitabile, essendo il nodo del sistema stradale dell’Alaska e il centro del traffico aereo internazionale.

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L’economia è dominata dal petrolio, dal gas naturale (25% della produzione statunitense) e più in generale dall’industria mineraria (sono presenti giacimenti di argento, carbone, oro, piombo e zinco), ai quali si affianca una sviluppata industria della pesca, ma anche il turismo occupa una parte significativa dell’economia.

Risale al 1968 la scoperta degli importanti giacimenti petroliferi di Prudhoe Bay nel Mar Glaciale Artico il cui sfruttamento fu reso possibile dalla successiva costruzione nel 1974 della Trans-Alaska Pipeline - TAP, un sistema di condotte di 1.300 km per consentire il trasferimento dell’oro nero da Prudhoe Bay nel nord al porto di Valdez nel sud.

La decisione di costruire la TAP provocò accese polemiche tra industria petrolifera, ambientalisti e nativi americani e fu possibile, solo dopo il compromesso raggiunto nel 1971 con l’approvazione da parte del Congresso americano del provvedimento “Alaska Native Claim Settlement Act” che assegnò ai nativi circa 1 miliardo di dollari e più di 16 milioni d’ettari di territorio. Nel 1976 fu invece modificata la costituzione dello Stato, per consentire la creazione dell’Alaska Permanent Fund, un fondo di investimento che accede alle entrate finanziarie dello Stato dai proventi petroliferi, a beneficio del popolo dell’Alaska.

Appare evidente in un’economia dominata dal petrolio, come il crollo dei prezzi dell’energia e delle materie prime, abbia spinto l’Alaska in uno stato di recessione, con le imprese dell’industria estrattiva e quelle del settore energetico, costantemente impegnate a tagliare posti di lavoro, con conseguente calo delle entrate fiscali e un tasso di disoccupazione allo stato attuale (6,4%), superiore di 1 punto percentuale rispetto alla media federale.

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Oggi quindi non si può parlare certo di boom economico per l’Alaska, l’unico stato della Federazione in cui il PIL negli ultimi tre anni è in contrazione, con molte aziende che stanno disinvestendo come dimostrano i recenti annunci di Shell Oil e Statoil che hanno abbandonato alcuni progetti di investimento, un colpo significativo per l’economia dello Stato e delle sue finanze già deficitarie.

Da parte delle autorità locali invece appare fondamentale aumentare la ricerca di petrolio nelle zone artiche, per assorbire i danni economici subiti dal crollo dei prezzi petroliferi e per contrastare efficacemente, in quanto molto costosi, i fenomeni causati dai cambiamenti climatici che rappresentano una minaccia concreta e già in atto in Alaska.

Il TAP d’altronde, costruito per trasportare 2 milioni di barili al giorno, oggi lavora al 25% della sua capacità, risultando fortemente anti economico e mentre il reddito - per la gran parte dipendente dal petrolio - continua a scendere, le spese per le attività legate ai cambiamenti climatici rischiano di lievitare, per la salvaguardia e la messa in sicurezza di ampie zone erose dalle imponenti mareggiate costiere.

Discorso diverso interessa l’industria ittica locale animata sia da aziende di notevoli dimensioni con imbarcazioni di grosso tonnellaggio e sia da piccole aziende a gestione familiare dotate di piccoli battelli. Nel complesso occupa oltre 78.000 persone di cui oltre 56.000 a tempo pieno e le restanti nell’indotto contribuendo in misura sostanziale all’erario dello Stato, con le tasse statali ottenute dalle industrie ittiche che crescono in valore ogni anno, in ragione dell’aumento della domanda e dei prezzi di vendita dei prodotti ittici.

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Con oltre 3 milioni di laghi, 3.000 fiumi e numerosi chilometri di costa su tre mari diversi (Oceano Artico, Oceano Pacifico e Mare di Bering), l’Alaska rappresenta una delle regioni più pescose al mondo. La produzione di pescato in Alaska è sia ampia che varia con 5 tipi diversi di salmone, 3 tipi di granchi, diversi tipi di pesci, gamberi ed aringhe che vengono raccolti ogni anno per essere venduti nel mercato interno o in quello internazionale.

Anche il commercio del legname ha sempre avuto un ruolo importante nell’economia dell’Alaska, ma negli ultimi dieci anni la vendita di questo bene ha subito una forte flessione a causa dell’alta pressione fiscale e dei nuovi restrittivi regolamenti ambientali. La maggior parte del legname raccolto proviene storicamente dalla zona costiera, ma nuove opportunità arrivano dallo sfruttamento delle risorse forestali dell’Alaska boreale. Si stanno inoltre sviluppando progetti che vanno dall’esportazione di trucioli di legno verso l’Asia, alla vendita del legno per il riscaldamento domestico e al commercio della betulla per lo sviluppo di fonti d’energia alternative, capaci di rilanciare il settore.

In campo agricolo invece appare evidente come a causa delle difficili condizioni climatiche, la produzione di latte e latticini, bestiame, verdure e vivai è appena sufficiente per il fabbisogno interno e gran parte dei generi alimentari sono importati. La stessa industria manifatturiera è di proporzioni limitate, e anche i prodotti non alimentari sono in gran parte importati.

I costi delle importazioni sono naturalmente molto elevati a causa delle spese di trasporto e questo contribuisce a tenere alto il costo della vita nonostante i sussidi governativi per gli abitanti dello Stato.

Il reddito pro capite dell’Alaska è storicamente superiore al livello della media statunitense, le ragioni che spiegano i livelli di reddito superiore sono le particolari circostanze e condizioni che caratterizzano l’economia ed il mercato del lavoro, quali il fatto che a parità d’impiego, le condizioni di lavoro sono più difficili in Alaska rispetto agli altri Stati, per cui le maestranze pretendono salari più elevati; vi è un’elevata richiesta di tecnici specializzati dotati di particolari abilità, necessari, per esempio, per il mantenimento dei condotti petroliferi.

Tra le iniziative a favore dei settori emergenti va infine segnalato il programma “Alternative Energy and Energy Efficiency” lanciato negli ultimi anni dall’Alaska Energy Authority (AEA), per lo sviluppo delle energie alternative attraverso lo sviluppo delle Biomasse, di energia geotermica, idroelettrica, oceanica ed eolica oltre a valutare la potenziale sostenibilità economica di alcuni progetti legati allo sviluppo dell’energia solare. L’autorità locale è impegnata a finanziare i progetti e a fornire informazioni, assistenza tecnica e monitoraggio ai partner coinvolti.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Antonio Passarelli , redazione@exportiamo.it

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