L’Unione Europea “riscopre” l’America e i suoi 325 milioni di consumatori. Ma anche il mercato europeo, con i suoi 510 milioni di abitanti, fa gola agli USA.

Non c’è quindi da stupirsi che dal 2013 le due potenze si siano lanciate in lunghi e complicati corteggiamenti, tentando ciascuna di fare breccia nel muro delle barriere commerciali che separano le due sponde dell’Atlantico attraverso il TTIP (sigla per Transatlantic Trade an Investment Partnership), un accordo “megaregionale” di ultima generazione di cui si parla molto ma sul quale spesso si fa molta confusione.

Facciamo una panoramica della situazione, per tentare di tracciare il profilo del futuro dei rapporti commerciali fra queste due aree.

Un accordo cruciale

La rilevanza strategica del TTIP salta agli occhi dando una breve occhiata allo studio effettuato nel 2013 dal Center for Economic Policy Research: secondo il think tank londinese un ipotetico accordo transatlantico si tradurrebbe in un aumento delle esportazioni del 6% per l’UE e dell’8% per gli Stati Uniti, ovvero un incremento del volume d’affari rispettivamente di 119 e 95 miliardi di euro annui.

A fare la differenza sulla quantità e qualità degli scambi fra le due regioni sarebbe principalmente l’abbattimento degli ostacoli non tariffari: nel 2009 Ecorys calcolava che una convergenza EU-USA su regole e standard porterebbe ad una riduzione significativa dei costi di transazione per gli esportatori europei, specie nei settori del food and beverage (-73,3%), dell’automotive (-26,8%) e dei servizi finanziari ed assicurativi (rispettivamente -31,7% e -19,1%).

Più modesti invece i benefici economici derivanti dall’abbattimento dei dazi doganali: infatti EU ed USA già applicano dazi nulli su circa la metà degli scambi mentre per il resto dei beni l’imposizione media si aggira attorno al 2%.

Ma dietro a questa cifra si nascondono importanti asimmetrie. Basti pensare al settore automotive, nel quale i produttori europei versano un dazio del 2,5%, a fronte del 10% imposto dall’UE alla concorrenza americana.

Inoltre su alcune categorie di beni gravano tasse altissime, come il colossale dazio americano sul tabacco (350%) o a quello sulle arachidi (130%), che bloccano di fatto l’accesso ai mercati statunitensi da parte degli esportatori europei.

Nei quindici round che si sono succeduti dal luglio 2013 ad oggi gli sforzi dei negoziatori si sono concentrati da un lato sull’eliminazione delle barriere doganali residue e dall’altro sul livellamento di tali differenze, per garantire anche la reciprocità delle condizioni di accesso ai mercati nei vari settori.

Progressi a più velocità

Sul fronte dazi la situazione pare procedere a un buon ritmo: nell’ottobre 2016 infatti sembra che i rispettivi rappresentanti abbiano quasi ultimato i lavori di abbattimento delle tariffe sui beni industriali, stabilendo peraltro periodi di phase-in solo per una frazione minoritaria di beni.

Ma non mancano le difficoltà, specie sul fronte delle barriere non tariffarie. In particolare Stati Uniti ed Unione Europea sembrano avere problemi a trovare un’intesa su temi come commercio di servizi cross-border e finanziari, o settori tradizionalmente sensibili come il tessile o l’agricoltura (prevedibile: del resto sono anni che Washington attacca in maniera più o meno velata la roccaforte europea della PAC e il suo sistema di sussidi).

Ci sono poi delle aree, come l’organizzazione del mercato culturale (radio, cinema, TV), servizi pubblici (sanità ed educazione) o la gestione di alcune utilities come le reti distributive di acqua potabile che l’UE ha deciso di blindare, lasciandole deliberatamente fuori dalle discussioni.

Un punto interessante riguarda gli aspetti procedurali adottati nei negoziati: stando alla Commissione Europea nella maggioranza dei casi si sta procedendo con l’accostamento delle rispettive offerte e la ricerca di punti comuni, mentre per la questione appalti pubblici si è scelto di partire dall’accordo GPA dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, al quale aderiscono entrambe le parti.

Questo significa che, forse per la prima volta dal 1994, gli Stati Uniti si trovano a dover negoziare un accordo commerciale senza partire dal proprio modello di riferimento e che la fisionomia di un eventuale accordo resta tutta da decidere.

Ma soprattutto vuol dire che contrariamente agli allarmi lanciati da diverse organizzazioni della società civile, l’Unione Europea sta lavorando per il mantenimento dei propri o modello di tutele ambientali e del consumatore, e che difficilmente capitolerà di fronte alle richieste del partner statunitense.

Settori

Nel settore chimico, della cosmesi e soprattutto delle attrezzature mediche USA ed UE stanno ancora tentando di stabilire meccanismi comuni di riconoscimento e classificazione dei beni.

Tutt’altro che questioni di lana caprina; le implicazioni di sistemi di classificazione comune infatti sono il punto di partenza per lo stabilimento di regole condivise: ad esempio si sta ancora cercando una soluzione per quei prodotti (come alcuni filtri solari o prodotti per l’igiene dentale) considerati cosmetici in Europa ma venduti come farmaci da banco negli Stati Uniti che quindi da un punto di vista normativo ricadono oggi in una zona grigia.

Per le apparecchiature mediche invece, un sistema comune di classificazione permetterebbe di capire su quali prodotti applicare il MDSAP (iniziativa dell’International Medical Devices Regulators Forum che tenta di fare in modo che basti un singolo audit per ottenere il conformity assessment di un medesimo prodotto per più giurisdizioni), il che avrebbe enormi conseguenze sulla capacità di accesso ai mercati delle piccole e medie imprese di entrambe le parti.

Un primo risultato positivo è invece stato incassato nell’ambito del farmaceutico, con il raggiungimento di un accordo di mutuo riconoscimento della conformità delle ispezioni negli impianti produttivi nel quadro del Good Manufacturing Practices (GMPs).

Sugli IPR infine, il principale nodo deriva dalla differenza con cui i due attori hanno regolato in passato la questione delle indicazioni geografiche: sarà difficile conciliare il sistema di protezione sui generis adottato dall’UE (basata su elenchi positivi di denominazioni d’origine) con quello americano, fondato sul meccanismo dei marchi registrati (sistema questo in cui chiunque può commercializzare un prodotto sul mercato americano come “Parmigiano Reggiano” purché registri il marchio negli USA, anche se per assurdo il prodotto non ha nulla a che vedere con l’originale).

La questione è molto delicata per i produttori europei e in particolare per quelli italiani che con il fenomeno dell’italian sounding perdono circa 54 miliardi di euro annui di potenziali fatturati.

Insomma, siamo abbastanza indietro, ma nulla di insolito vista la spinosità dei temi affrontati e il forte grado di strutturazione delle regole dei rispettivi Paesi.

Un futuro incerto

Dal mese di novembre sul progetto TTIP soffiano però i venti del protezionismo che rischiano di congelare l’avanzamento delle discussioni. Sin dall’inizio della campagna elettorale infatti, il neopresidente Trump non ha mai nascosto la propria volontà di perseguire politiche di stampo isolazionista, peraltro già inaugurate con l’invio al macero del Trans-Pacific Partnership e con il lancio di proposte aggressive volte a colpire le importazioni messicane e cinesi verso gli Stati Uniti.

C’è da credere che il TTIP sia la prossima vittima designata anche perché Trump sembra volersi vendicare con il vecchio continente dell’eterna diatriba sull’hormon beef aumentando i dazi sulle importazioni europee.

Ma chi oggi canta vittoria per la morte del TTIP potrebbe restare deluso: salvo il caso di una poco probabile inversione di rotta dell’attuale governo statunitense, l’ipotesi più probabile è che i negoziati vengano semplicemente ibernati fino a data da destinarsi, e che una volta passata la turbolenza protezionista si riprenda da dove si era rimasti.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Velia Angiolillo, redazione@exportiamo.it

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