Il 15 di febbraio, dopo lunghissimi dibattiti, il Parlamento Europeo ha ufficialmente ratificato l’accordo di libero scambio col Canada, il CETA.

Ma è solo il primo passo: il CETA infatti è un “trattato misto” ovvero contiene disposizioni che toccano sia competenze comunitarie che nazionali.

Questo significa che oltre all’approvazione dell’Unione, serve anche l’ok unanime dei 38 parlamenti degli Stati Membri (nazionali e regionali).

Sicuramente un processo delicato, dato che diversi politici europei stanno cavalcando i traumi della crisi promettendo il ritorno alla prosperità attraverso politiche a favore della chiusura dei confini.

Fra questi Marine Le Pen, che a Strasburgo ha definito il trattato “un accordo scellerato verso i popoli dell’Unione”, Grillo che su Twitter equipara il CETA ad un “silenzioso colpo di Stato”, e Salvini, che ha definito il CETA come “un regalo alle multinazionali e alla finanza”.

Gli argomenti generalmente inanellati contro il CETA sono dei grandi classici: la perdita di posti di lavoro indotta dalla concorrenza, il rischio di distruzione della fragilissima agricoltura europea, l’opacità dei tribunali di arbitraggio o il fatto che l’accordo obbligherebbe i consumatori europei a nutrirsi di alimenti intrisi di sostanze velenose vietate in Europa.

Senza pretendere di passare in rassegna 1200 pagine di accordo, cerchiamo di indagare la fondatezza di queste posizioni.

Agricoltura: una mela avvelenata?

Nel settore agricolo fra Canada ed UE si è assistito a un vero e proprio baratto fra gamberi, sacchi di farina e ruote di Asiago. Oltre a ridurre le tariffe sul 90% dei prodotti agricoli (sfuggono solo uova e pollami), il CETA mette mano anche alle soglie massime delle numerose tariff rate quotas (TRQ) europee e canadesi.

L’Europa ha alzato le soglie delle sue TRQ a dazi zero su diversi prodotti canadesi come grano tenero (da 38.853 a 100.000 ton. annue), mais (da 1333 a 8000) e sulle carni bovine e ovine (rispettivamente da 7.640 e 12.500 a 60.788 e 75.000 ton annue).

Su queste ultime continua però a gravare il divieto esplicito di utilizzare ormoni o ractopamina, attuato anche attraverso l’obbligo di ottenimento di una licenza d’importazione (per gli altri prodotti agricoli interessati da quote vige prevalentemente la regola del first-come-first-served).

Forse nel tentativo di stabilizzare i mercati europei, la Commissione ha compensato una parte dell’innalzamento dei tetti con uno speculare abbassamento delle Hilton Quotas.

Un’eventuale aumento delle importazioni di carni canadesi dovrebbe quindi essere compensato da una pari diminuzione di quelle di Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay, USA, Australia e Nuova Zelanda.

In cambio di questa regalìa l’UE ha ottenuto un innalzamento delle TRQ canadesi sui formaggi di 16.800 tonnellate annue (anche qui 800 riallocate dalle TRQ canadesi presso il WTO); un settore tradizionalmente protettissimo che per l’Europa potrebbe valere una fortuna.

A questo va aggiunto l’impegno del Canada di accordare a 145 prodotti tipici europei il massimo grado di protezione dalle contraffazioni, a cui si sommano le altre 21 a cui il Canada accorda livelli di protezione meno stringenti ma comunque superiori a quelli attuali (il Canada, dal canto suo, non ha incluso nell’accordo nessuna denominazione tipica).

E se nonostante le protezioni previste da noi l’apertura dei mercati agricoli fa paura, il Canada è già passato all’attacco annunciando un piano di stanziamenti di 350 milioni di dollari volti a mantenere competitività investendo nella dotazione tecnologica degli impianti di produzione casearia.

Nodo risoluzione dispute

Un altro dei principali motivi di fama del CETA sono le polemiche sul suo sistema per la risoluzione dispute Stato-Investitori. Il sistema previsto inizialmente (un classico ISDS) è stato sostituito in seguito a insistenze francesi con una corte permanente finanziata dagli Stati membri, caratterizzata da un sistema d’appello e dalla pubblicità dei dibattiti e dei documenti.

Anche il nuovo assetto però, per quanto migliore, non ha mancato di sollevare obiezioni: regole procedurali ancora in parte non definite, assenza di clausole anti-elusione per gli Stati terzi, mancanza di una “magistratura” indipendente e sopratutto il mantenimento del concetto di “aspettativa legittima”, che permetterebbe agli investitori di ricorrere contro i governi rei di aver disatteso le loro aspettative di business con l’adozione di leggi avverse.

Secondo gli oppositori questo permetterebbe il ripetersi di situazioni come il famoso processo Philip Morris vs. Uruguay (anche se il CETA sottolinea “il diritto dei Paesi membri a regolamentare nell’interesse pubblico”). È anche per queste ragioni che il governo della Vallonia ha chiesto (e ottenuto) che l’ICS fosse sospeso nella fase di applicazione provvisoria del CETA.

Va detto che anche col vecchio sistema ISDS nella maggior parte dei casi a trionfare sono gli Stati: secondo l’UNCTAD infatti solo il 26% delle dispute Stato-Investitore si risolvono a favore degli investitori.

CETA e Italia

Ad esportare verso il Canada oggi sono ben 13.147 aziende italiane (63.000 posti di lavoro) che generano un surplus commerciale di circa 3,2 miliardi di euro.

A fare la parte del leone sono il settore vinicolo, farmacologico, la meccanica e l’automotive, ma ci sono ampi margini di crescita anche per altri settori (agroalimentare in testa).

In linea teorica, infatti, per il Belpaese il CETA è un buon accordo: apre all’estrema eterogeneità dell’export italiano le porte di un mercato maturo dalle richieste estremamente diversificate, specie in materia di prodotti di consumo.

L’abbattimento totale dei dazi sul 99% dei beni, l’approvazione di sistemi di mutuo riconoscimento delle norme tecniche, la protezione di ben 41 indicazioni geografiche italiane, la liberalizzazione i mercati pubblici di ogni livello dovrebbe giovare in particolare alle PMI, che rappresentano il 79% delle aziende che esportano in Italia e il 99% del totale delle attività nazionali.

Questi ed altri benefici però arriveranno solo se tutti i 28 membri UE decideranno di ratificarlo. E il calendario elettorale del 2017 promette tempesta.

L’accordo della discordia

A destare maggiori preoccupazioni sono le elezioni francesi: per alcuni analisti la Le Pen potrebbe addirittura ottenere fra il 32 ed il 45% dei consensi al secondo turno, a seconda dell’oppositore che si troverà davanti.

Non bastano a conquistare la presidenza ma comunque sono il segnale che il discorso isolazionista del Front National attira sempre più consensi (e comunque manca più di un mese alla fine della campagna elettorale).

In Germania e Olanda invece sta montando l’ultradestra di Paul Hampel e Geert Wilders, due leader che a causa delle loro posizioni sovraniste ed euroscettiche rischiano di affossare il CETA solo perché negoziato dalla Commissione.

Vero che in Germania la partita si gioca più fra CDU ed SPD, ma l’aumento di preferenze per un partito come l’AFD rappresenta un evento senza precedenti dal 1933.

In Italia tutto dipende da come verrà risolta la questione Italicum ma nelle indagini di voto più recenti il M5S tocca una media del 27-28% mentre la Lega è stabile al 13%.

Poi c’è la spada di Damocle dell’accordo belgo-belga fortemente voluto da Paul Magnette, che attribuisce di fatto alla Vallonia potere di veto sulla ratifica del trattato da parte del governo federale belga.

Il futuro del CETA sembra giocarsi a domino: basta una tessera fuori posto per tornarsene a casa a mani vuote.

Fonte: a cura di Exportiamo, di Velia Angiolillo, redazione@exportiamo.it

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